Nei giorni scorsi H&M ha lanciato per l’autunno una linea di capi d’abbigliamento femminili chiaramente ispirata alla tenuta delle guerrigliere kurde le cui immagini sono circolate nei media di tutto il mondo. Più o meno nelle stesse ore, le forze di sicurezza turche caricavano i kurdi che, sul confine con la Siria, esprimevano la propria solidarietà a Kobane, che da settimane resiste all’assedio dello Stato islamico (Is). Quel confine che nei mesi scorsi è stato così poroso per i miliziani jihadisti oggi è ermeticamente chiuso per i combattenti del Pkk, che premono per raggiungere Kobane. E la città kurda siriana è sola di fronte all’avanzata dell’Is.

A difenderla un pugno di guerriglieri e guerrigliere delle forze popolari di autodifesa (Ypg/Ypj), armati di kalashnikov di fronte ai mezzi corazzati e all’artiglieria pesante dell’Is. Gli interventi della «coalizione anti-terrorismo» a guida americana sono stati – almeno fino a ieri – sporadici e del tutto inefficaci. Già qualche bandiera nera sventola su Kobane.

Ma chi sono i guerriglieri e le guerrigliere delle Ypg/Ypj? Qui da noi i media li chiamano spesso peshmerga, termine che evidentemente piace per il suo “esotismo”. Peccato che i peshmerga siano i membri delle milizie del Kdp (Partito democratico del Kurdistan) di Barzani, capo del governo della regione autonoma del Kurdistan iracheno: ovvero di quelle milizie che hanno abbandonato le loro posizioni attorno a Sinjar, all’inizio di agosto, lasciando campo libero all’Is e mettendo a repentaglio le vite di migliaia di yazidi e di appartenenti ad altre minoranze religiose. Sono state le unità di combattimento del Pkk e delle Ypg/Ypj a varcare i confini e a intervenire con formidabile efficacia, proseguendo la lotta che da mesi conducono contro il fascismo dello Stato islamico.

Sì, perché è pur vero che l’Is è stato “inventato” e favorito da emirati, petromonarchie, turchi e americni: ma sul terreno non è altro che fascismo. Ce lo ricorda l’ultima pallottola con cui si è uccisa l’altro giorno a Kobane la diciannovenne Ceylan Ozalp, pur di non cadere nelle mani degli aguzzini dell’Is. Qualcuno l’ha chiamata kamikaze: ma come non vedere il nesso tra quella pallottola (tra quell’estremo gesto di libertà) e la pastiglia di cianuro che, dall’Italia all’Algeria e all’Argentina, hanno portato in tasca generazioni di partigiani e combattenti contro il fascismo e il colonialismo?

E come non vedere le ragioni per cui l’Is ha concentrato le proprie forze su Kobane? La città è il centro di uno dei tre cantoni (gli altri due sono Afrin e Cizre) che si sono costituiti in «regioni autonome democratiche» di una confederazione di «kurdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni», come recita il preambolo della straordinaria Carta della Rojava (come si chiama il Kurdistan occidentale o siriano). È un testo che parla di libertà, giustizia, dignità e democrazia; di uguaglianza e di «ricerca di un equilibrio ecologico». Nella Rojava il femminismo è incarnato non soltanto nei corpi delle guerrigliere in armi, ma anche nel principio della partecipazione paritaria a ogni istituto di autogoverno, che quotidianamente mette in discussione il patriarcato. E l’autogoverno, pur tra mille contraddizioni e in condizioni durissime, esprime davvero un principio comune di cooperazione, tra liberi e uguali. E ancora: coerentemente con la svolta anti-nazionalista del Pkk di Öcalan, a cui le Ypg/Ypj sono collegate, netto è il rifiuto non solo di ogni assolutismo etnico e di ogni fondamentalismo religioso, ma della stessa declinazione nazionalistica della lotta del popolo kurdo. E questo nel Medio Oriente di oggi, dove per ragioni confessionali o etniche semplicemente si scanna e si è scannati.

Basta ascoltare le parole dei guerriglieri e delle guerrigliere dell’Ypg/Ypj, che non è difficile trovare in rete, per capire che questi ragazzi e queste ragazze hanno preso le armi per affermare e difendere questo modo di vivere e di cooperare. È facile allora capire le ragioni dell’offensiva dell’Is contro Kobane. Ma è facile anche capire perché non intervengano a sua difesa i turchi, colonna della Nato nella regione, e perché sia così “timido” l’appoggio della «coalizione anti-terrorismo». Vi immaginate che cosa possono pensare gli emiri del Golfo dell’esperimento della Rojava e del principio della parità di genere? E gli “occidentali”? Be’, le ragazze che sorridono con il kalashnikov in mano saranno pure glamour, ma per gli Usa e per la Ue il Pkk è pur sempre un’organizzazione «terroristica», il cui leader è stato consegnato alle galere turche dall’astuzia della «volpe del tavoliere» (Massimo D’Alema, per chi non ricordasse). E d’altronde: non è nato come organizzazione marxista-leninista, il Pkk? Dunque, si tratta pur sempre di comunisti.

E allora? (…) La guerra lambisce oggi i confini dell’Europa, entra nelle nostre città attraverso i movimenti di donne e uomini in fuga, quando non restano sui fondali del Mediterraneo. Ma, dentro la crisi, la guerra minaccia anche di saldarsi con l’irrigidimento dei rapporti sociali e con il governo autoritario della povertà. Guerra e crisi: non è un binomio nuovo. Ma nuove sono le forme con cui si presenta: nella relativa crisi dell’egemonia statunitense, che costituisce un tratto saliente di questa fase della globalizzazione, la guerra dispiega la propria violenza “destituente” senza che all’orizzonte si profilino scenari realistici – fossero pure a noi avversi – di “ricostruzione”. Le vicende della «coalizione anti-terrorismo» sono una plastica illustrazione di questa impasse.

Rompere l’impasse è una condizione necessaria perché le stesse lotte contro l’austerity in Europa abbiano successo. Ed è possibile soltanto affermando in modo del tutto materiale principi di organizzazione della vita e rapporti sociali radicalmente inconciliabili con le ragioni della guerra: è per questo che l’esperienza della Rojava assume per noi caratteri esemplari. Mentre a Kobane si combatte casa per casa, migliaia di persone manifestano a Istanbul e in altre città turche, scontrandosi con la polizia, e centinaia di kurdi hanno fatto irruzione nel Parlamento europeo. Si sente spesso dire che chi parla di un’azione politica a livello europeo pecca d’astrazione. Ma provate a immaginare quale sarebbe la situazione in questi giorni se a fianco dei kurdi ci fosse un movimento europeo contro la guerra, capace di una mobilitazione analoga a quella del 2003 contro l’attacco all’Iraq ma finalmente con un interlocutore sul terreno. Non ve ne sono le condizioni? Ragion di più per impegnarsi a costruirle. È un sogno? Qualcuno diceva che per vincere bisogna sognare.
* euronomade.info