“Verum et factum reciprocantur seu convertuntur”, cioè l’azione e i fatti si convertono nella verità, e viceversa. Con una sola frase Giambattista Vico riassumeva così una delle più sostanziose critiche mosse al razionalismo cartesiano del diciassettesimo secolo. Non la verità è accessibile alla conoscenza umana, ma solo il verosimile. Vale a dire: l’uomo ha la sola certezza della storia che egli stesso scrive, tutto il resto rimane nelle mani di Dio. Una vera e propria rivoluzione vichiana, dove, con gli strumenti della filologia e della filosofia, la conoscenza viene a conformarsi come storiografia delle culture e delle civiltà. Nell’antichità, possiamo così trovare un’umanità che Vico definisce «degli dei», dove la narrazione del mondo assume caratteristiche mitologiche. Dopo, in epoca moderna, a farla da padrone sarebbe invece la razionalità scientifico-matematica, che avrebbe sostituito gli dei e i miti con il principio di non contraddizione, la legge di causalità e altri strumenti provenienti dalla logica classica di Aristotele. Insomma, i modi di intendere la verità sono per Vico molteplici e nessuno è in grado di smentire l’altro mostrandone l’assenza di fondamento. Perché il fondamento non sta nel cuore duro della realtà, ma in quello mutevole dell’uomo. Un uomo i cui bisogni e le cui esigenze sono sempre in divenire, mai definiti una volta per tutte.
E non è un caso se sul Museo di arte contemporanea del Castello di Rivoli, che ospita la personale dell’inglese Ed Atkins (a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marianna Vecellio, fino al 29 gennaio; un’altra mostra, in contemporanea, si tiene alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo), campeggia l’opera Vedere Conoscere dell’americano Joseph Kosuth. Opera che consiste di due grandi pannelli – uno in inglese, l’altro in italiano – con su scritta una massima del nostro Vico: «Fa’ vero ciò che tu vuoi conoscere; ed io, in conoscere il vero che mi avete proposto, il farò, talché non mi resta in conto alcuno da dubitarne, perché io stesso l’ho fatto». Questa è l’interpretazione che i curatori del museo vogliono dare dell’arte contemporanea: è il conoscente a porre l’oggetto della conoscenza, giacché il conoscere è un atto intenzionale con cui la società e l’uomo danno vita a una nuova realtà. Nel caso di Kosuth, ci troviamo all’interno dell’orizzonte dell’arte concettuale, ma questa chiave interpretativa rivela una certa efficacia anche per le videoinstallazioni di Atkins.
Nel sottotetto del castello, si sviluppa un percorso fra cinque sue opere: Even Pricks (2013), Warm, Warm, Warm Spring Mouths (2013), Ribbons (2014), Happy Birthday!!! (2014) e Hisser (2015). In ognuna di esse il protagonista è quello che nel gergo dei social network possiamo chiamare un «avatar». In altri termini, la proiezione digitale dell’artista medesimo. Una soggettività composta di pixel e byte, che vive in un mondo altro, con struttura al limite dell’iperuranico. Ambientazioni e scenografie sono congelate, mute, reticenti a instaurare un dialogo con la presunta natura umana dell’attore. Narrativamente la trama si ripete sempre uguale a se stessa. Siamo di fronte a una solitudine cibernetica, dove il protagonista è preso in soliloqui dall’inquietante venatura autistica: guarda di fronte a sé ma con lo sguardo perso in un orizzonte digitale che non è in grado di rispondergli. Vorrebbe dire, ma riesce soltanto a enunciare, a ripetere coattamente quasi fosse un computer difettoso. Le immagini sono nitidissime, rarefatte, e lo spettatore potrebbe avere l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di trasparente, di autentico e autoevidente. Ma in verità ha davanti a sé qualcosa di più di una semplice raffigurazione, qualcosa di più della realtà così com’è. Piuttosto la ricostruzione di un mondo iperreale, di un mondo parallelo dove gli uomini e le loro relazioni sono depurati da tutte le caratteristiche «analogiche» che li rendono autentici e imperfetti. Sono scenari evidentemente falsi, artificiali e asettici, ma che in qualche modo, o forse proprio per questo, sembrano rivelare una verità più profonda su tutto ciò che consideriamo «reale» e non «virtuale».
Infatti, Atkins vede bene la contraddizione propria dei social network e del web più in generale: noi pensiamo di utilizzare il digitale per potenziare o rendere più ricca la nostra vita, ma in realtà finiamo per mettere in piedi qualcosa che ha vita propria, slegato e indipendente da quello che ci succede quotidianamente per strada o in ufficio. L’avatar diventa piano piano un altro noi, un secondo io, con cui possiamo scontrarci, fare pace, ascoltare, mandare al diavolo. Nessun giudizio morale, solo una cristallina constatazione dei fatti. Il web ci rende doppi, ci divide in due anime che non sempre e non per forza restano in ascolto l’una dell’altra.
Ed è ciò che accade ai personaggi della sua videoarte. Per esempio in Ribbons. Un uomo è riverso su un bancone di un bar, circondato da bicchieri di birra vuoti. È a torso nudo, ricoperto di tatuaggi e sembra perso in un limbo di disperazione. Improvvisamente, però, inizia a cantare un’aria da opera lirica. Un vocalizzare soave e tenero che stride con la rudezza della scena, un contrasto che spacca in due il personaggio. Costretto in uno spazio amorfo e privo di vita, è come se attraverso il canto egli cercasse di ristabilire una connessione con il calore di un sentimento estetico remoto, proveniente da un passato nostalgico e lontano. Attraverso la bellezza e la poesia, tenta un ultimo, disperato tentativo di umanizzazione. Un tentativo che non porta i frutti sperati, poiché subito dopo vediamo la testa dell’uomo sgonfiarsi come un palloncino e il sipario calare.
Riprendendo la citazione di Vico, nelle opere di Atkins la capacità dell’uomo di dare senso alla propria storia raccontandola viene a mancare. La sua facoltà narrativa diventa produzione automatica di segni e significati sempre identici a loro stessi, in un eterno ritorno di codici binari inespressivi e astratti.
Perché se la verità è ciò che il soggetto conoscente pone come tale, il contesto di internet risponde con un modello antitetico: l’oggetto da conoscere non è posto da nessuno. Nessun atto creativo, nessun riferimento all’intenzionalità del soggetto, il quale, nel migliore dei casi, può dire «Mi piace». Come nella videoinstallazione di Atkins Even pricks. Con riferimento all’organo maschile, un pollice recto appare sulla scena, si irrigidisce, si ingrossa e infine esplode. Nel regno dei social network, certifichiamo il nostro partecipare della vita collettiva con un gesto misero e meschino. Il quale, in fondo, risulta essere nient’altro che l’espressione ipertrofica di un ego spaurito e solo, intento ad autoconvincersi che il senso della propria esistenza possa essere a portata di clic.