In pieno impero canoviano (e in aperta lotta a Bernini, scultore da Ancien Régime e gran corruttore dell’arte di Sei e Settecento), Leopoldo Cicognara nel 1818 avrebbe concesso all’interno della propria Storia della scultura a Edme Bouchardon, 1698-1762, artista-principe del medio Settecento francese, almeno l’onore delle armi: «avrebbero avuto di che consolarsi le arti, se Bouchardon fosse nato in un’epoca più gloriosa per le medesime, o se egli avesse avuto tanta forza di genio per elevarle, quanto ebbe di sano criterio per capire che si andava errando fuor della strada migliore». Un giudizio storico non facile, quello su Bouchardon e sul suo stile, così poco riducibile a un’etichetta ‘barocca’, così lontano dalle pur imminenti istanze ‘neoclassiche’, nel contesto di un Settecento scultoreo che ancora necessita, tanto per l’Italia quanto per la Francia, di approfondimenti critici, talvolta basilari.
A risarcire una di queste lacune è ora un bella mostra in corso fino al 5 dicembre al Louvre, intitolata Edme Bouchardon (1698-1762). Une idée du beau, destinata poi ad approdare al Getty di Los Angeles (dal 10 gennaio al 2 aprile 2017) con il titolo, ricalibrato sul gusto d’oltreoceano, Bouchardon: Royal Artist of the Enlightenment. L’accompagna un catalogo assai ricco edito in francese, tra gli altri, da Guilhem Scherf e Anne-Lise Desmas (Louvre Éditions, euro 49,00), che asseconda lo sviluppo biografico grosso modo dominante nell’esposizione, aperta da una rassegna di ritratti dell’artista e conclusa da una sezione dedicata al monumento equestre in bronzo di Luigi XV. Collocato nel 1763 sull’attuale Place de la Concorde, nel 1792 venne distrutto da una Rivoluzione francese decisamente più estremista (rispetto ai critici nostrani ‘antiberniniani’ di fine Sette e primo Ottocento) nello sradicare i simboli del potere passato e nel condannare, con essi, gli stili che li avevano serviti.
Più che però il biografismo, a costituire il vero e proprio fil rouge della mostra è di fatto l’attività grafica dell’artista: straordinaria e ben conservata, generosissima nel permetterci di mettere a fuoco non soltanto i momenti di formazione di Bouchardon, ma anche l’eterogeneità dei suoi interessi, lambenti addirittura la più classicistica numismatica e la stampa in tutte le sue duttilità iconografiche. Allievo di Guillaume Coustou, Bouchardon divorò l’High Baroque romano durante un soggiorno quasi decennale nella capitale pontificia (1723-1732), ricopiando opere di Bernini, di Algardi e dei loro «giovani», mentre riproduceva in marmo il Fauno Barberini e studiava Raffaello in Vaticano. E proprio a partire dalle belle sanguigne dello scultore, la mostra riesce a mettere in scena splendidi cortocircuiti visivi, come quello tra i disegni del berniniano Cardinal Borghese (raffigurato dal francese in due studi con tanto di misure) e alcuni ritratti in marmo del periodo romano, tra cui il Clemente XII, quasi a rimarcare quanto ancora nel Settecento non si potesse prescindere dai grandi maestri del primo Seicento per fare ritratti parlanti, per dare vita al marmo.
Che si vada dal progetto cartaceo (calibratissimo) per un gettone all’articolata costruzione di una storia per un frontespizio, la facilità dello scultore nel dominare il mezzo grafico emerge nitidamente nel naturalismo di certe soluzioni, come negli studi di diverse teste equine per il Luigi XV, o nell’anticonvenzionale autoritratto a occhi chiusi della Morgan Library, che apre l’esposizione e sembra indicare già la via verso un Courbet; oppure nei molti disegni dal vivo di giovinetti in posa, a partire dai quali il marmo scolpito da Bouchardon acquistò una pastosità vitale e si trasformò in sofisticati capolavori quali l’Amore che intaglia l’arco, oggi al Louvre. Perché, a ben guardare, quello che davvero la mostra parigina riesce a mettere in evidenza, non è solo la parabola di un artista, quanto soprattutto la vivace eterogeneità del mestiere dello scultore: le diverse implicazioni del disegno, che esercita, guida l’osservazione, costruisce i punti di vista; la riflessione attenta condotta in graduali passaggi materici tra gesso e terracotta; e poi l’epilogo in pietra, in marmo o in bronzo, a cui solo, il più delle volte, è lasciato il giudizio sull’artista.