Il lavoro di decostruzione dell’immaginario coloniale italiano è intrapreso oggi, in Italia, da una sempre più numerosa schiera di studiosi. La proliferazione di convegni e di occasioni pubbliche sul tema della letteratura postcoloniale italiana ne è una conferma (in questi giorni si tiene a Padova un ricco simposio intitolato Archivi del futuro). Così pure il tentativo di elaborazione teorica messo in campo da non pochi ricercatori ha dato vita ad approfondimenti, indagini, riflessioni che descrivono, ormai, un contenitore ricco di sollecitazioni e stimoli.

Nonostante la ricezione del suo lavoro nel nostro paese sia parziale e, sovente, viziata da paradossali semplificazioni, la figura di Edward Said, il critico e intellettuale palestinese scomparso nel 2003, e autore di quel punto di riferimento imprescindibile che è Orientalismo (1978), si impone come figura centrale nel dibattito sugli studi postcoloniali. Ne è una testimonianza un recente volume a cura di Bruno Brunetti e Roberto Derobertis, Identità, migrazioni e postcolonialismo in Italia. A partire da Edward Said (Progedit, pp. 176, euro 20), che raccoglie saggi e interventi di Daniele Comberiati, Paola Rotolo, Giuseppe Domenico Basile, Franca Sinopoli, Fulvio Pezzarossa e dei due curatori.

L’ambizione è quella di far reagire il contributo saidiano con la necessità di tematizzare e decostruire le strutture dell’immaginario coloniale, riportando alla luce la dimensione materiale e politica delle rappresentazioni e di quelle formazioni di pensiero ormai sedimentate nella coscienza comune. Un tentativo, insomma, di dar conto di quel processo di «orientalizzazione» di certi fenomeni – fra cui, come rileva ad esempio Basile, la rappresentazione del Meridione e dei meridionali nella letteratura italiana post-unitaria – che ancora oggi sembra strutturare il punto di vista dominante, alimentando – con la forza del presupposto e dell’impensato – razzismi, intolleranze, fenomeni di fanatismo, ed escludendo, dal campo della ricerca e della consapevolezza politica, l’alterità, l’eccentricità che nasce dall’incontro tra culture.

Per dirla con Derobertis – che ripercorre con dovizia di particolari la presenza di Said in Italia e riconsegna al lettore una mappatura dello stato dell’arte degli studi postcoloniali – il volume «prova a interrogarsi su quale sia il ruolo della letteratura nel Terzo millennio in un mondo profondamente trasformato da nuovi poteri e nuove forme di comunicazione; su quale sia il ruolo degli intellettuali e dell’umanesimo di fronte alle sfide delle violenze discorsive e materiali che la realtà «mondana» produce sotto la spinta delle persistenze dell’orientalismo».

Proprio quest’ultimo aspetto appare interessante a chi scrive. La dimensione pratica del lavoro intellettuale, il suo incardinarsi su un sistema di relazioni sociali e istituzionali, non può essere scissa dalla mera elaborazione teorica: è questa, forse, la lezione più politica dell’esperienza saidiana. I discorsi culturali hanno una pienezza materiale e una motivazione pratico-politica.

Compito della critica è quello di evidenziare tale materialità e le formazioni di compromesso che la strutturano. In tal senso, i contributi presenti nel volume rivolgono «le proprie attenzioni al canone italiano moderno e contemporaneo, provando a indagarne quelle cristallizazioni – coloniali e eurocentriche – funzionali ai rapporti di potere culturale, sociale e geografico dentro e fuori la penisola»: non senza trascurare la natura semplificativa e insistentemente orientalistica della comunicazione mediatica in materia di Islam o di immigrazione (il saggio di Paola Rotolo approfondisce la questione).
Cosicché, l’analisi della costruzione materiale dell’immaginario riconduce Franca Sinopoli a tematizzare il «razzismo epistemico della cultura italiana», determinato da un carente dibattito sul passato coloniale e da un progressivo processo di «decolonizzazione della memoria storica» che ha ragioni politiche e che produce, ormai quotidianamente, le forme di razzismo nei confronti di soggetti ritenuti «diversi» o «altri».

Che non sia dunque questo uno dei modi per poter rilanciare quel nesso tra critica e politica che ormai langue nella cosiddetta società letteraria italiana?