Ted Sarandos sta avendo un autunno movimentato. Il suo settembre è iniziato con viaggi lampo a Venezia, Toronto e Telluride per le anteprime di Beasts of No Nation, il film di Cary Fukunaga sui bambini soldato in Africa che è il primo lungometraggio che la Netflix distribuirà in sala (oltreché in contemporanea streaming). L’esordio al cinema del colosso on-demand è stato strategicamente presentato a Venezia in anticipo del lancio italiano del service online previsto per il mese prossimo.

Sarandos che è il chief content officer di Netflix, ammette che se ancora 5 anni fa gli avessero prospettato un carriera da produttore si sarebbe messo a ridere, perché “il nostro business era il noleggio di film”. “Oggi – aggiunge con malcelata soddisfazione – abbiamo una capitalizzazione di mercato maggiore di ogni studio di Hollywood, eccetto Disney e Nbc Universal”, Mica male per una società che ha cominciato a offrire contenuto in streaming poco più di cinque anni fa ma che oggi progetta di rivoluzionare il futuro di cinema e televisione e la conquista del mondo.

Netflix nasce nel 1997 vicino Monterey in California dalla mente di due informatici, Reed Hastings e Marc Randolph, che la fondano come servizio di video noleggio per posta che decolla quando adotta la formula di un prezzo fisso senza costi di spedizione o penali per ritardi nella riconsegna. Già nel 2005 il catalogo comprende 35mila titoli e l’azienda spedisce 1 milione di Dvd al giorno nelle caratteristiche buste rosse, popolari soprattutto dopo che l’azienda elimina i limiti: l’abbonamento consente visioni illimitate di film.

A partire dal 2008 lo stesso modello viene adattato al video “istantaneo su richiesta” via internet. Un successo clamoroso, tanto che nel 2010 Netflix passa da essere il maggiore cliente del servizio postale americano alla maggiore sorgente di traffico Internet degli Stati uniti. Oggi conta 60 milioni di abbonati, di cui la metà in 60 paesi fuori dagli Usa: Australia, Europa, Canada, Centro e Sud America. Ma, precisa Sarandos con caratteristica modestia, “il nostro obbiettivo sono 200 paesi”.

Con oltre 1 milione di titoli in catalogo e accordi di distribuzione con tutti i principali studios, per Netflix l’ultima evoluzione è stata l’espansione nella produzione originale.

Il primo esperimento un paio di anni fa è stato Lillyhammer, una low-cost che ha genialmente trasportato Steven Van Zandt (dei Sopranos e della E Street Band)  nelle lande innevate della Scandinavia come un Mafioso del New Jersey esiliato in Norvegia. La serie funziona e prepara il terreno a House of Cards e Orange is the New Black, che centrano il successo di critica e i primi premi. Netflix  dimostra di poter giocare alla pari con HBO e la AMC di Breaking Bad.  Ma le regole del gioco in realtà non interessano alla casa di Los Gatos, che intanto apre la divisione content a Los Angeles, nel “cortile di casa” degli studios.

Le serie Netflix poi sconvolgono il concetto stesso di serialità, mettendo online tutti gli episodi contemporaneamente. Nasce il binging, l’abbuffata di episodi a seconda dei gusti (e della resistenza) dello spettatore, una “rivoluzione” che in realtà si adegua semplicemente alle abitudini già acquisite nell’ampio segmento di pubblico che ha già abbandonato il concetto di palinsesti e fruisce in base ai propri tempi di programmi registrati su DVR.

Si scopre così un altro fenomeno nuovo: Netflix, in grado di valutare esattamente abitudini e gusti del pubblico di nicchia, decide di “resuscitare” serie cult che altre emittenti non possono sostenere. E’ il caso di Arrested Development e The Killing. Il catalogo oggi comprende dozzine di titoli originali: il noir caraibico Bloodline, mostrato l’anno scorso alla Berlinale e messo online a marzo, il “romanzo” fantascientifico Sense8 commissionato a Larry e Lana Wachowsky, sitcom come Grace and Frankie con  Lily Tomlin e Jane Fonda. È una lista parziale, poi serie, film, programmi per bambini, talk show e molti documentari, dalla serie culinaria Chef’s Table a quelli visti quest’anno a Sundance (What Happened Miss Simone) e Venezia (Winter on Fire).

Dietro alla schermata del sito c’è uno staff composto da 400 impiegati a Los Angeles, mentre al quartier generale di Los Gatos sono giunti a 12mila, quasi tutti informatici. I programmatori Netflix mantengono infatti una rete in grado di gestire i fiumi di gigabyte che sgorgano giornalmente dai server dell’azienda e inoltre sono responsabili dell’algoritmo segreto che “profila”  gli abbonati suggerendo nuove visioni in base ai programmi già visti.

neil hunt netflix foto zumapress

È lo strumento che la direzione considera la chiave del successo, come avviene d’altronde anche in altri colossi di e-commerce per cui la tecnologia “predittiva” è ormai imprescindibile. Come Amazon, o Google, Netflix ha una passione lievemente inquietante per i big data, l’analisi dei dati che permette di sapere tutto sul comportamento dei propri utenti e l’offerta in rete sulle presunte preferenze individuali.

Come nel caso Amazon, il modello digitale dei consumi ha effetti potenzialmente devastanti su quelli tradizionali.

La morte della (non compianta) Blockbuster è in gran parte imputabile all’ascesa dello streaming e la prossima vittima molti temono potrebbero essere i cinema. La distribuzione di un film di prestigio come Beasts of No Nation in streaming non ha certo fatto piacere agli esercenti che si sentono già sotto assedio dalla compressione delle finestre di esclusività. A Netlfix sostengono che  l’industria delle sale era moribonda già da ben prima, che è la pirateria il nemico comune e che un modello attuabile di streaming è l’unica realistica opzione per fermare l’emorragia e sovvenzionare i contenuti.

Effettivamente per i creativi, i produttori di quei contenuti, Netflix rappresenta un nuovo canale di distribuzione, e ora di produzione, di cui c’è un disperato bisogno nell’imperante paradigma del contenuto gratuito sempre.

La dottrina Netflix prevede anche la produzione di contenuti locali. In Messico lo studio digitale ha appena ordinato Ingobernable una serie sulla (vera) first lady messicana, Irene Urza, che dovrebbe essere una specie di House of Cards latina. Altre due produzioni latino americane sono già online: Narcos, per la firma del brasiliano Jose Padilha e la commedia calcistica messicana Club de Cuervos.

In Francia è stata prodotta Marseille, una serie di crimine e politica ambientata in quella città e in Inghilterra stanno per partire le riprese di The Crown, una serie biografica su Elisabetta II, affidata a Stephen Daldry (Billy Elliot), coprodotta con la Sony per 100 milioni di dollari. Sono già a buon punto invece quelle di War Machine, una satira sull’Afghanistan e sul generale in disgrazia Stanley McChrystal.

Il riserbo è ancora totale sul progetto italiano ma Sarandos ammette che una prima produzione girata in Italia (probabilmente  a Napoli) è già stata completata e uno spinoff dei fortunati cartoon (Winx Club WOW) è stato commissionato ai Rainbow Studios di Iginio Straffi; verrà distribuita in tutti i territori nel 2016. In ogni caso un modello flessibile e globale che utilizza coproduzioni con entità locali gestite da una struttura centrale assai più snella diquella tradizionale di uno studio hollywoodiano.

Un modello che prefigura il futuro della televisione, assicurano a Los Gatos, e i numeri sembrano certamente dargli ragione.

Sarà  interessante vedere l’impatto di questo modello nel nostro paese.

Il lancio italiano è fissato per il 22 ottobre – costo abbonamento mensile a partire da 8 euro –  potrebbe più plausibilmente essere un test più per l’Italia che un banco di prova per Netflix, per capire se il nostro panorama visionario ossificato potrà superare schemi anacronistici di consumo e vecchi modelli generalisti e spezzare arcaici monopoli pay e TV di produzione e distribuzione.

Cominciare ad adeguarsi cioè a un paradigma un pò più orizzontale e più dinamico.