Dieci capi di accusa pesano sulla testa di Ahmed Abdallah, avvocato egiziano difensore dei diritti umani, responsabile della Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà (Ecrf) e consulente della famiglia Regeni da due mesi. Tra i reati che Abdallah avrebbe commesso – secondo le autorità egiziane – ci sono l’incitamento all’uso della forza per rovesciare il governo e cambiare la costituzione, l’incitamento ad attaccare stazioni di polizia con fini terroristici e a usare la violenza per impedire al presidente di esercitare i propri poteri e – ultimo ma non per importanza – l’appartenenza ad un gruppo terroristico. Quale gruppo, non è dato saperlo. Secondo la polizia, di questa fantomatica cellula farebbero parte 47 persone (di cui 21 già agli arresti) e sarebbe collegato alla Fratellanza Musulmana. Il rischio è enorme: la pena di morte.

Su questo si basa l’ordine che ha allungato da quattro giorni a due settimane la detenzione dell’avvocato, noto per l’attenzione posta sulle sparizioni forzate di cittadini egiziani, di cui Giulio Regeni è stato vittima. E se ieri la procura egiziana negava con vigore che l’arresto di Abdallah fosse legato al caso del giovane ricercatore (in commissariato è finito, dicono, «per partecipazione a manifestazioni non autorizzate»), ieri si è fatta strada una versione ben diversa: secondo l’avvocato Anas Sayed di Ecrf, la procura di Heliopolis, distretto est del Cairo, ha chiesto ad Abdallah dei propri legami con la famiglia Regeni. Una richiesta «informale» durante un colloquio «informale», ovvero apparentemente slegato da reati di cui è ufficialmente accusato: «So che gli è stato chiesto dei suoi rapporti con i Regeni in un colloquio informale – ha detto Sayed all’Agenzia Nova – a prescindere dalle indagini sulle presunte violazioni della legge anti-terrorismo».

Dietro le sbarre è finito all’alba del 25 aprile, prima della manifestazione anti-governativa annunciata nei giorni precedenti. È uno dei quasi 400 egiziani arrestati preventivamente dalle forze di sicurezza chiamate a impedire una protesta che lascia nudo il presidente-golpista al-Sisi. I numeri li dà Human Rights Watch: la polizia egiziana ha arrestato almeno 382 persone durante le proteste di massa contro il governo e la decisione di cedere le isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita. «La politica della tolleranza zero in Egitto contro le proteste lascia la gente senza mezzi per esprimere pacificamente le proprie lamentele – ha detto Nadim Houry, vice direttore di Hrw in Medio Oriente – Manifestare può significare passare anni in prigione».

A poco, però, sembra essere servita la campagna di detenzioni: ieri Il Cairo ha fatto da palcoscenico ad un’altra manifestazione. Decine di persone hanno marciato dalla sede del Sindacato della Stampa egiziana verso l’ufficio della procura della capitale per denunciare un reato: l’arresto e gli abusi compiuti contro i reporter lunedì 25 aprile e l’attacco alla sede del sindacato, lo stesso giorno. Nelle sei pagine di denuncia mossa contro il ministero degli Interni e il dipartimento della sicurezza interna della capitale ci sono le testimonianze dirette dei giornalisti aggrediti o detenuti dalle forze di sicurezza. Dei 33 arrestati sono ancora sei – riporta Khaled al-Meery, membro della segreteria del sindacato – i reporter ancora in prigione, senza accuse formali contro di loro. La denuncia va a colpire due figure centrali del regime militare del presidente al-Sisi, i suoi uomini di fiducia: il ministro degli Interni Ghaffar e Khaled Abdel Aal, capo della sicurezza interna al Cairo.