«La prima critica ufficiale dei sauditi all’Egitto». Con questo titolo lunedì il quotidiano egiziano al Shorouq ha riferito la fine della luna di miele tra il Cairo e Riyadh, a seguito di un infuocato fine settimana alle Nazioni Unite segnato da veti incrociati sulla guerra in Siria. A far emergere la crisi matrimoniale è stato l’ambasciatore saudita all’Onu Abdallah al Mouallimi. «È stato doloroso vedere che sulla Siria le posizioni del Senegal e della Malesia sono più vicine al consenso arabo (la linea saudita, ndr) rispetto a quelle di un rappresentante arabo», ha commentato il diplomatico riferendosi ai voti favorevoli del suo collega egiziano Amr Aboulatta ai due diversi progetti di risoluzione presentati da Francia e Russia. Il primo è stato bloccato dal veto di Mosca. Il secondo non ha raccolto sufficiente sostegno al Consiglio di Sicurezza. «Abbiamo voluto dare appoggio ad entrambi gli sforzi per mettere fine alla crisi siriana», ha spiegato Aboulatta. Parole che hanno gettato altro sale sulla ferita.

I sauditi dall’Egitto si aspettano l’approvazione, senza esitazioni, della loro strategia regionale, a cominciare dalle politiche per abbattere il nemico ed “apostata” siriano Bashar Assad. E il “sì” egiziano al progetto di risoluzione russo ha fatto infuriare Riyadh che credeva di aver comprato la politica estera del Cairo. Il presidente egiziano al Sisi infatti deve all’Arabia saudita la (fragile) stabilità del suo brutale regime. Subito dopo il colpo di stato in Egitto che nel 2013 ha abbattuto la presidenza Morsi e il potere dei Fratelli Musulmani (avversari del regime wahhabita saudita), Riyadh è corsa a depositare qualche miliardo di dollari nella Banca centrale egiziana. Quindi ha garantito prestiti e altri aiuti finanziari. Infine, nei mesi scorsi, re Salman in persona, in visita ufficiale in Egitto, ha assicurato investimenti e sostegni per oltre venti miliardi di dollari. Ma i matrimoni d’interesse, si sa, si reggono sull’ipocrisia e non poche volte hanno vita breve.

Al Sisi ha restituito a re Salman (o meglio ceduto, protestano ancora gli egiziani) le due isolette di Tiran e Sanafir, nel Mar Rosso, facendo il classico bel regalo volto a rassicurare la moglie con l’intenzione di continuare a frequentare l’amante, Assad. Il regime egiziano, impegnato in una guerra sanguinosa con l’Isis nel Sinai, ha fatto della guerra all’islamismo, da quello politico della Fratellanza a quello jihadista del Califfato, la sua priorità. Per questo desidera che le attuali istituzioni statali siriane restino in piedi, in modo da evitare una transizione politica senza controllo che finerebbe per portare al potere islamisti e jihadisti (sostenuti da Riyadh). Inoltre non disapprova l’intervento militare russo in Siria e mantiene aperti i canale di comunicazione con il governo sciita iracheno e con l’Iran, nemico dell’Arabia saudita. Anche per questo, dopo la promessa iniziale di essere protagonista della Coalizione sunnita a guida saudita impegnata nella guerra settaria contro i ribelli sciiti Houthi, al Sisi non ha mandato soldati egiziani a combattere in Yemen e si è limitato a partecipare al blando blocco navale in atto nello stretto di Bab el Mandeb.

La stampa del Golfo attacca duramente al Sisi – il qatariota al Rayah due giorni fa l’ha accusato di «partecipare al genocidio dei siriani» – mentre uno dei più noti analisti arabi, Abdel Bari Atwan, sottolinea la rilevanza per il quadro regionale della manovra compiuta dal leader egiziano per avvicinarsi alla Russia, che potrebbe portare a un diverso sistema di alleanze in Medio Oriente. La mossa lancia anche una critica indiretta alla linea dell’Amministrazione Obama, rimasta “fredda” dopo il golpe del 2013 e poco disposta ad assecondare la politica del regime egiziano in Libia, a cominciare dall’appoggio pieno al generale Khalifa Haftar.