Un terremoto politico è in corso in uno dei paesi tradizionalmente più fedeli a Mosca, l’Armenia. Si tratta di un tentativo volto a spodestare l’egemonia della Russia con l’aiuto dell’Occidente – come vorrebbero alcuni – o la protesta ha origini diverse, più legate ai problemi sociali ed economici del paese? Se lo sono chiesti in molti in questi giorni, interrogandosi su questo movimento che per più di due settimane ha tenuto tutti col fiato sospeso.

La bolletta salata

Tutto ha avuto inizio il 17 giugno, per una decisione in apparenza banale: un incremento della bolletta della luce pari al 16%, il terzo negli ultimi due anni. Tanto è bastato perché migliaia di persone, soprattutto giovani, si riversassero di fronte al Teatro dell’Opera per chiedere a gran voce di annullare l’aumento. Una cosa sorprendente, se si tiene conto dell’assenza di partiti e organizzazioni, e della natura in larga parte spontanea della protesta, ma assai più comprensibile se la si contestualizza nell’emergenza che investe l’Armenia negli ultimi anni. Un paese dove poche decine di famiglie, i cosiddetti oligarchi, gestisce fra corruzione e malaffare un patrimonio stimato a circa metà del Pil nazionale, controllando di fatto anche le principali forze politiche, fra maggioranza e opposizione.

Gli oligarchi e la geopolitica

A fronte di questi privilegi pressoché illimitati, una larga fetta della popolazione, oltre il 40%, è costretta a vivere con meno di due dollari al giorno, fra povertà e continue umiliazioni. In mezzo, una classe media debole e esigua, con stipendi molto bassi a dispetto dell’ottima preparazione culturale e delle condizioni di lavoro insostenibili. A giustificare l’ingiustificabile, ovvero lo sfruttamento, il vessillo del nazionalisimo e il contesto di instabilità geopolitica del paese, oggettivamente critica: un conflitto sempre meno congelato con l’Azerbaigian, che costa ogni anno decine di morti sul confine, e la costante tensione con un altro potente vicino, la Turchia, dalla quale la separa fra l’altro la questione del genocidio armeno di cui quest’anno ricorre il centenario.

Passa allora il messaggio, ripetuto da molti anche in occasione delle proteste di questi giorni, che una contestazione dell’ordine sociale e politico corrisponderebbe a un favore fatto al nemico, con il rischio di sprofondare l’Armenia in un abisso ancora più profondo. Un ricatto bello e buono, ma che nella sua ipocrisia fa leva su una paura diffusa nella popolazione: quella della guerra.

A rendere ancora più cupo il quadro è la crisi dell’economia russa, che ha avuto effetti pesantissimi anche sulla piccola repubblica caucasica. Membro a partire da quest’anno dell’Unione economica eurasiatica voluta da Putin, l’Armenia non ha potuto godere dei benefici effetti annunciati dal governo prima dell’adesione.

Crisi economica

Al contrario, è scivolata in una crisi che si è trasformata da ultimo in una vera e propria recessione. Su tutto questo, più che su complotti o intrighi internazionali, si innesta dunque l’origine della protesta, che segue una serie di contestazioni che avevano segnato Yerevan già negli ultimissimi anni, dall’aumento di prezzo dei mezzi di trasporto alla riforma delle pensioni, sempre con protagonisti i giovani.

A rendere più tesa l’atmosfera in questa torrida estate armena è però anche un’altra questione: a gestire l’elettricità nel paese non è il governo, ma una compagnia privata russa, la Inter Rao, che ha fino ad oggi rifiutato di scendere a patti con la piazza. Ed ecco allora che «Electric Yerevan», come i giovani armeni chiamano la loro protesta, assume inevitabilmente anche una valenza politica. Mosca non l’ha presa bene, e la reazione piuttosto scomposta della stampa russa, determinata nel portare avanti l’ipotesi del complotto occidentale, la dice lunga sui timori che circolano in questo momento al Cremlino.

La repressione

A partire dal 21 giugno, la protesta si è spostata in via Baghramyan, la via del parlamento, ma anche della residenza del presidente Sargsyan, a cui i manifestanti hanno chiesto di intervenire.

Come prima risposta, non molto diplomatica, è arrivata la repressione poliziesca. All’alba del 23 giugno idranti, manganelli e squadre di agenti in borghese nascosti fra la folla si sono abbattuti sui manifestanti sgomberando la via. Bilancio: 237 arresti, decine di feriti.

La protesta non è scemata, ed è anzi ripresa e il governo si è impegnato a coprire momentaneamente l’aumento previsto fino a una prossima consultazione con i russi. I manifestanti, dopo lunghe discussioni hanno avanzato una controproposta, articolata in tre punti: sospensione immediata dell’aumento, ulteriore revisione del prezzo dell’elettricità e un processo giusto nei confronti degli agenti che hanno compiuto violenze.

La risposta di Mosca

La risposta russa è arrivata, ma non nei confronti dei manifestanti, che Mosca si guarda bene dal voler legittimare come interlocutori. Le attenzioni sono state tutte volte a rafforzare il governo di Yerevan: un nuovo prestito da 200 milioni di dollari che include dei missili balistici Iskander M e, dopo molti mesi di diniego, Mosca ha deciso di consegnare all’Armenia Valerij Permjakov, il giovane soldato russo che a gennaio si era reso protagonista di una strage nella cittadina di Gyumri.

Neanche ciò è bastato ai manifestanti, la cui richiesta di lavoro, di dignità e futuro rischia di essere continuamente strumentalizzata per fini politici. Un ultimo colpo, forse definitivo, è però arivato nel pomeriggio di ieri, quando la polizia ha provveduto a sgombrare la via e a rimuovere le barricate, arrestando 46 attivisti, rilasciati in giornata.