Fortunatamente Elena Ferrante è diventata un caso letterario. Sfortunatamente per le ragioni sbagliate. Negli States incassa applausi dalla critica e vende a manetta, come non succedeva dai tempi dei tempi. Rallegrarsene è d’obbligo, ma il lieto evento resta un particolare secondario. In patria impazza la caccia all’identità segreta della benemerita. Sulla Stampa un buontempone ha sentenziato che la conquista dell’America, a suo gusto inspiegabile, deriva dall’anonimato di cui la sleale si circonda. Analisi tanto surreale da meritare lodi: fare di peggio sarà un’impresa. In compenso una responsabile delle pagine culturali di Repubblica, mica pifferi, ci ha messo del suo inaugurando un genere giornalistico sinora inedito, l’intervista-stalking. Vittima il malcapitato Domenico Starnone, bersagliato da un terzo grado che dire poliziesco è poco. Confessa che sei tu! Ammetti e facciamola finita: abbiamo tanti indizi da far prova!

Inutile pettegolezzo

Le facezie di questo tipo sono da sempre il sale della pubblicità, ma hanno il loro prezzo. La gustosa discussione sull’identikit della scrittrice spinge in secondo piano quel che ha scritto, lo derubrica a oggetto di ciarle e chiacchiere stucchevoli. Come se, per restare sotto la bandiera a stelle e strisce, gli americani si fossero tanto appassionati al «caso Pynchon» da non accorgersi che il suo Gravity’s Rainbow aveva rovesciato come un guanto la loro letteratura.

Il paragone non è esagerato. Chiunque lo abbia scritto, L’amica geniale non è solo un bellissimo romanzo ma un punto di svolta nella letteratura contemporanea di questo Paese. All’anonima in questione è riuscito quel che moltissimi avevano inutilmente tentato, scrivere l’autobiografia di una generazione, del suo tempo storico, dei suoi fallimenti. Quello del comunismo e del femminismo, come ha scritto giustamente Laura Fortini nella sua recensione sul manifesto (6 Novembre 2014), ma non solo. Anche quello del progresso, della mobilità sociale tendente all’egualitarismo, della speranza di un riscatto sociale affidato alla capacità, alla cultura, soprattutto all’intelligenza, grande protagonista, sin dal titolo, della tetralogia.

L’intelligenza è il solo capitale, l’unica arma di cui le protagoniste nate nella miseria dei rioni popolari di Napoli, Lenù e Lila (ma anche Nino, amato da entrambe), dispongono per cambiare il mondo e le loro vite. La adoperano in maniera opposta. Lenù la mette a frutto, rispettando sempre, sia pure in modo critico, tutte le regole: studio, ottima università, carriera brillante, libri di successo, un bel matrimonio, figlie nate con la vittoria in tasca. Lila la dissipa, e di regole non ne rispetta neanche una: ferma alla licenza elementare, stanziale per decenni nel degrado del rione, mai una riga pubblicata dopo quel primo eccezionale componimento infantile che aveva rivelato il suo talento, un figlio destinato allo sbandamento permanente. Eppure anche lei, pur nei confini del quartiere, è baciata per un po’ dal successo: pioniera dell’informatica, imprenditrice fattasi da sé, quasi ricca.

Lenù parte, anzi «fugge». Lila resta e ci prova dall’interno, opponendo il suo carisma alle regole eterne delle strade di Napoli. Finiscono entrambe sconfitte. Il mondo non cambia e il saldo delle loro esistenze è ambiguo.

Dietro ogni «rinnovamento» di Napoli ghigna il solito sventramento. Alla fine, le regole eterne del censo restano le sole che contino davvero. Per gli amici cresciuti con loro la traiettoria è identica: sconfitti quelli hanno fatto carriera con il Psi di Craxi, quelli che sono ascesi con la camorra, quelli che hanno sparato per una rivoluzione sognata. Perdono tutti: chi la vita, chi la libertà, chi l’anima. Quella di Lila e Lenù non è una storia privata. Il loro fallimento è quello della Repubblica e della prima generazione di cittadini republicani, è quello del miraggio che aveva illuso l’occidente nei decenni della Golden Age post bellica.

Elena Ferrante è riuscita là dove tanti avevano fallito non solo perché scrive meglio e sa coniugare la testa e le viscere come a pochi è dato, ma anche perché, forse per la prima volta, ripercorre quella parabola dal basso, dal punto di vista di quelli per cui l’ascensore sociale non era una definizione sociologica ma il confine tra la vita e la sopravvivenza. E perché non la mette mai al centro della narrazione, ma la rilegge attraverso il prisma emotivo di un’amicizia femminile. Amicizia strana, peraltro, con quella simmetria troppo perfetta tra le due biografie così precisamente opposte: l’una il rovescio esatto dell’altra. Quella che fugge e quella che resta. Quella che scrive e quella che abbandona la penna da bambina per non riprenderla mai più. Quella che si sforza di dare un ordine alla propria esistenza e quella che rischia continuamente di vedere la realtà «smarginarsi» intorno a sé. Quella che passo dopo passo, inavvertitamente, finisce per trovare nello specchio l’immagine deludente di una intellettuale da salotto e quella a cui, se li guardasse, gli stessi specchi mostrerebbero una vecchia smarrrita e scarmigliata.

Una débâcle generazionale

Due amiche, legate dal rapporto più intimo, creativo e tempestoso della loro vita. Ma forse anche due parti della stessa persona, incapaci di fondersi e condannate a cercare di ricongiungersi senza riuscirci (perché questo, in fondo, è il tema dell’ultimo volume della tetralogia). E forse proprio questa incapacità di riannodare due anime uguali e opposte è all’origine della débâcle storica e morale di cui le due amiche sono partecipi e testimonianza.
Ma Elena Ferrante è una narratrice: non le spetta il compito di analizzare o azzardare spiegazioni. Nel suo libro ha raccontato e descritto una vita, un’amicizia, un’epoca storica, una generazione e la sua bancarotta: ci si può accontentare. Andare oltre, darsi una ragione di quel tracollo, sta a chi legge, perché questo è quel che si fa con i grandi libri. Se non si è troppo impegnati a porsi domande di maggior momento, tipo: «Ma Elena Ferrante è o non è Domenico Starnone?».