A settanta anni da quel momento magico che ha visto nascere la Repubblica sull’onda dell’entusiasmo e della partecipazione popolare, attorno alle amministrative di domenica, si respira un’aria di disincanto e di frammentazione politica e sociale. Se a quella nascita seguirono gli anni della ricostruzione, a queste elezioni seguirà un referendum che già porta i segni di una profonda divisione ed elezioni che produrranno più accentramento dei poteri e meno stimoli alla partecipazione in un prolungarsi della stagnazione economica.

Da questa constatazione possono discendere atteggiamenti diversi.

Uno può essere di nostalgia per la Costituzione che fu e per quella che abbiamo più scritto e sognato che realizzato. Ma non sarebbe corretto trascurare il fatto che anche la sinistra è stata complice della degenerazione della nostra democrazia.

Un altro è quello di rassegnarsi ad accettare quello che passa il convento come giusta punizione per i nostri errori, espiazione delle nostre colpe.

A chi lo sostiene vorrei far notare che accingersi a votare Sì ad una riforma giudicata «maldestra e modesta» in presenza di una legge elettorale «pessima» che accentra poteri di nomina e di decisione nelle mani dell’esecutivo, mi sembra aggravare le nostre responsabilità verso i giovani.

Quale messaggio vogliamo inviargli? Che siccome noi (ma noi chi? E tutti nella stessa misura?) abbiamo sbagliato e siamo stati sconfitti, loro dovranno avere non solo meno lavoro e meno diritti, ma anche un assetto istituzionale più fragile e rischioso?

Francamente trovo insopportabile essere ancora una volta chiamato a scegliere tra difesa di un passato che so per molti aspetti essere indifendibile e suo smantellamento in nome di un futuro che, magari dopo qualche anno, si scoprirà essere un ritorno ad un passato ancora più antico (vedi condizioni di lavoro, caporalato, voucher…). Sarebbe ora, invece, di andare oltre questo schema semplicistico ed entrare nel merito dei processi e dei problemi.

Oggi siamo davanti ad un processo profondo di mutazione dell’assetto partitico che pone problemi seri per il futuro della democrazia e della sinistra. E’ chiaro che la ricerca continua della contrapposizione e la riduzione del confronto politico allo schema binario innovatori-conservatori è componente organica e strutturale del renzismo. Non si tratta di un fatto caratteriale o occasionale, ma di una strategia politica precisa e lungimirante. Renzi ritiene che il nostro paese sia stato bloccato da un bipolarismo che ha oscillato tra veti incrociati ed inciuci compromissori.

Per sbloccarlo, perciò, egli si ripromette di scomporre le vecchie appartenenze costruendo una nuova forza politica che vada oltre quelle divisioni e riaggreghi le forze più «dinamiche» dei due schieramenti in un orizzonte di «riformismo possibile» cioè compatibile con la globalizzazione finanziaria.

Il fenomeno Renzi ha queste ambizioni di portata storica. Da qui la durezza dello scontro: per chi ci crede o questo processo va avanti o si torna indietro. Nel suo cammino Renzi si trova oggi a metà strada e a metà legislatura. Sul terreno economico ha giocato tutte le carte possibili. Ma, man mano che diventano chiari gli effetti reali, la sua leadership registra un calo di fiducia. Potrà usare i nuovi margini di flessibilità, ma non potrà accontentare tutti gli appetiti stuzzicati.

Quindi, il terreno delle riforme diventa sempre più importante: qui, infatti, gli effetti non sono quantitativamente misurabili e, soprattutto, non lo sono a breve termine. Per questo egli accentua il carattere ideologico dello scontro, ne alza il livello ed opera con un preciso piano di azione su più versanti.

Vediamone alcuni.

  • Rapporto diretto leader-elettori. La personalizzazione del confronto e la curvatura plebiscitaria trovano nel referendum il terreno privilegiato per costruire un filo diretto del leader con la base del partito. La precisazione che in questo percorso, con i Comitati del Sì si getteranno le basi del nuovo partito, esprime una visione strategica di ri-costruzione della nuova identità politica.
  • Mobilitazione psicologica. Un processo così ambizioso richiede livelli di partecipazione dal basso e di motivazione politica diffusi e forti. Comporta un utilizzo straordinario dei social per mobilitare sentimenti e persone, creare aggregazioni e solidarietà, marcare distanze, scomporre e ricomporre. Non è un caso che i gruppi social che si rifanno al renzismo si sono spinti nella ricerca negli archivi di frasi e concetti dei leader storici, fino a provare ad adottarli spudoratamente come padri della loro riforma. E non è nemmeno un caso che sui social si siano scatenate discussioni tra compagni con passati politici comuni con toni tanto alti da produrre lacerazioni e rotture di relazioni personali: operazioni necessarie per perseguire la scomposizione delle vecchie aree di appartenenza.
  • Nomi in vetrina. In questo percorso, dopo aver tanto criticato le liste dei professoroni che aderivano a documenti per il No, sono partite le liste dei sostenitori del Si attinte in un generico, ma ampio mondo culturale. Costituzionalisti pochi, ma autori e persone dello spettacolo tanti. Quello che conta è la quantità e la spendibilità mediatica.
  • Conti interni al partito. Questo disegno tende implicitamente a regolare i conti interni con quella parte del partito che resiste e che sarà emarginata naturalmente e definitivamente nella nuova costruzione. Il rischio lo ha capito qualche dirigente quando ha detto che così la campagna referendaria rappresenta il vero congresso del Pd. Ma questa azione non è solo politica. Si spinge fino a pressioni personali mirate a mettere in difficoltà alcuni tra i dirigenti più “agitati”. Così nel caso di Bersani si arriva alla pubblicazione di lettere dirette personalmente al vecchio leader da militanti che lo avevano sostenuto e che adesso confessano di non capire più i suoi comportamenti. Una pressione forte perché agisce sulla componente psicologica ed affettiva e su un leader sensibile, appunto, alla “ditta”.

Renzi si gioca tutto. E l’esperienza fatta, ad oggi, gli dà ragione: il gruppo che lo segue tiene, altri arrivano, la sinistra interna conta sempre di meno. D’altra parte è naturale che laddove il potere è il cemento che tiene insieme, chi lo detiene parte in vantaggio ed i mass media allineati crescono di giorno in giorno. Renzi, come si dice, si è messo avanti col lavoro e ad oggi gode di un vantaggio notevole.

E’ bene riconoscere questo dato per avere consapevolezza dello sforzo che ci attende e della complessità delle cose da fare.

Naturalmente la partita è ancora aperta. Il voto di domenica potrà segnare una battuta d’arresto ed una inversione di tendenza. Ma la strada è in salita ed i ballottaggi presenteranno ulteriori problemi.

Prepariamoci, perciò, ad una salto di qualità. La cavalcata renziana proseguirà inesorabile. Noi dovremo «resistere» – gestendo sul referendum alleanze anche improprie – e nello stesso tempo «costruire».

Dovremo impedire che alle prossime elezioni si arrivi con l’Italicum e costruire un fronte proiettato verso il futuro.

Dovremo, per questo, rompere la gabbia del Si e del No sul referendum, far emergere una riforma costituzionale alternativa, ma soprattutto rimettere al centro i problemi economici e sociali del paese.

Se, come risulta dalle recenti indagini, le riforme sono prioritarie per meno del 10% dei cittadini, la sinistra sarà sinistra solo se e quando riuscirà ad imporre i temi del lavoro, del welfare, del futuro concreto delle persone che sono prioritari per l’altro 90%.