Un uomo in piedi da ore davanti all’ascensore del suo palazzo, sudato, con la sua piccola valigia accanto, è in attesa che la minaccia in grado di rendere insonni le sue notti si traduca in realtà: quell’uomo è Dmitrij Shostakovich, il musicista più acclamato di tutta la Russia, e quella minaccia non è che un frutto del terrore imposto da Stalin. Aspetta che lo vengano a prendere per interrogarlo, come tanti prima di lui, e non vuole farsi sorprendere. Perciò corre avanti agli eventi rischiando di farsi trovare in quella ridicola situazione dagli ignari condomini, e intanto gli frullano per la testa nomi, ricordi, le facce che hanno contato nella sua vita, mentre rigira le sigarette Kazbek fra «dita non pianistiche», come qualcuno le aveva definite, per tenere a bada la atroce, indomabile paura che lo attanaglia.

È questa l’immagine alla quale Julian Barnes ha deciso di affidare l’ingresso di Shostakovich nel suo ultimo romanzo, Il rumore del tempo (Einaudi, traduzione di Susanna Basso, pp. 250, euro 18,50, in uscita martedì), un titolo che riprende quello delle Memorie di Mandel’štam e, allo stesso tempo, si oppone al «mormorio della Storia».
Da una parte le contingenze, la parentesi epocale che riduce un genio a farsi vigliacco, dall’altra l’immortalità della sua musica, ciò che davvero contava per lui, e per noi che gli sopravviviamo, riunite in un unico quadro immune da effetti speciali, che lo scrittore inglese compone ricorrendo alla sua arte sapiente del montaggio, in cui il tempo scorre a sbalzi come la memoria, vagando dall’esito di un fatto ai suoi presupposti, e poi ancora più indietro a accogliere spezzoni di vita remoti.

«La linea della vigliaccheria era la sola che attraversasse dritta e leale la sua intera esistenza»: questa la conclusione romanzesca che Barnes trae dalle lunghe frequentazioni delle biografie di Shostakovich. Sembrerebbe una sentenza, ma tutto ciò che segue e precede queste parole smentisce il luogo comune, perché se basta un attimo a fare di un uomo un eroe ci vuole la costanza di una vita, e una certa fermezza a farne un vile: «il che si risolve in una certa qual forma di coraggio». Così riflette, con una qualche ironia, Shostakovich, solitamente poco incline a assolversi, un esercizio nel quale Barnes lo sostituisce, valendosi di quella sua saggezza narrativa che ne rende sempre così equilibrate le trame.

Certo, in un romanzo che ripercorre la vita di una celebrità, i riflessi di ciò che lo ha condotto alla fama ne contagiano l’interesse; ma quel che davvero importa sono i prelievi autoriali di questo o quel dettaglio, il rimontaggio mnestico di ciò che nella realtà si presentava governato dall’imperativo del prima e del poi, il colore aggiunto o tolto o virato, le proiezioni dell’animo dello scrittore sul suo eroe, o come più spesso accade in letteratura, sul suo antieroe. Ma, diversamente da quanto accadeva nel Pappagallo di Flaubert, dove Barnes usava la mediazione del medico inglese Geoffrey Braithwaite per stabilire una intimità romanzesca con l’autore di Madame Bovary, qui affida al discorso indiretto libero un rapporto frontale con il suo personaggio.
Una volta di più, quel che conta è la sequenza delle immagini che si succedono sulla pagina, procedimento al quale Barnes si applica con grande cura, come testimonia l’incipit di quel suo recente capolavoro che è Il senso di una fine, dove nell’accozzaglia di oggetti stretti in un unico ricordo si stringe il sommario di una trama tortuosa.

Qui, tre sono le svolte cruciali scelte per scandire la vita del personaggio realmente esistito di nome Dmitrij Dmitrievich Shostakovich, ognuna delle quali coincide con un anno bisestile, dettaglio che non manca di venire sottolineato dal protagonista, alleato involontario del suo destino. La sera del gennaio 1936 in cui va in scena al Bol’shoj Una Lady Machbeth del distretto di Mcensk, sul palco delle autorità figurano Molotov, Mikojan, Zdanov e dietro una tenda Stalin. Al quarto atto il palco si è svuotato, il giorno dopo la Pravda titolerà: «Caos anziché musica».

Shostakovich rilegge l’articolo più volte, il suo lavoro è etichettato come l’anti-opera di un piccolo borghese formalista, a dispetto del grande successo accordato alle centottanta repliche già allestite fra Leningrado e Mosca, e soprattutto in America, in Argentina, in Scandinavia, un successo che ora si trasforma nell’ennesimo capo di accusa. Perciò le veglie di fronte all’ascensore, la valigia pronta, la mente già consegnata al peggio. Ma il suo «Primo Colloquio con il Potere» avverrà soltanto nella primavera dell’anno successivo e sarà finalizzato a ottenere la sua delazione ai danni di Tuchachevskij, un vecchio amico, ora sospettato di cospirazione. Nel giro di due giorni l’interrogatore viene egli stesso arrestato, un fortunato rivolgimento della sorte che sarebbe toccata a Shostakovich se alla ripresa del «colloquio» non si fosse presentato armato di liste con i nomi da denunciare.

Notte dopo notte, il musicista si stanca di aspettare che lo vengano a prendere e torna al suo letto accanto alla moglie, disfa la valigia, si riconcilia con il suo destino, quello di continuare a lavorare fino alla morte, una liberazione che giungerà tardiva. Quando nel novembre del 1937 viene eseguita la sua Quinta sinfonia la risposta è una ovazione: si direbbe che Shostakovich si sia ravveduto, la sua musica, infatti, rimanda a «Una tragedia ottimistica», e nel commento di un giornalista suona come «La risposta creativa di un artista sovietico a critiche fondate».
Julian Barnes salta vari passaggi della vita del compositore, la sua non è l’ennesima biografia, né un tentativo di giudizio finale. Si direbbe, anzi, la rappresentazione arresa alle evidenze di una vita obbligata al compromesso, e tutto ciò su cui si concentra è quanto serve a far funzionare il romanzo. Né la tentazione della fedeltà, né quella del tradimento riguardano il suo lavoro; quanto alle fonti, cita le memorie contenute nel controverso volume di Solomon Volkov e, con speciale gratitudine, la biografia di Elisabeth Wilson, Shostakovich: A Life Remembered, un esempio evidentemente lontano da quello che gli aveva ispirato – in un capitolo esilarante del Pappagallo – la sua sarcastica invettiva contro gli studiosi pedanti e pedissequi.

Di nuovo in auge, Shostakovich viene invitato a far parte della delegazione sovietica in visita negli Stati Uniti: è lo stesso Stalin a convocarlo con una telefonata, il cui resoconto narrativo raggiunge una notevole tensione affidandosi a sequenze di scambi sobrie e laconiche. Dall’altra parte del telefono, il compositore si fa pregare, lamenta problemi di salute, confessa di non possedere un frac, e – soprattutto – non saprebbe come rispondere alle domande sul perché le sue partiture non vengano più eseguite in Russia, dopo che nella Ottava sinfonia aveva messo in musica la tragicità della guerra, rivelando il suo incoercibile pessimismo, e quel «morboso individualismo» che si opponeva alla celebrazione di un conflitto bellico trionfante.

Stalin ascolta, ignaro di tutto, ma dal momento che vuole risolutamente Shostakovich con sé, uno dopo l’altro i problemi del musicista vengono risolti, e le sue partiture prontamente riabilitate. L’accoglienza generosa del pubblico non si accompagna, tuttavia, a quella degli artisti che più avrebbe voluto incontrare: né Toscanini, che pure disprezzava, né Stravinsky, che venerava come il massimo compositore del XX secolo, lo vollero incontrare. Successo e umiliazione si concentrano in quei pochi giorni in America in cui Shostakovich si sente, incredulo, pronunciare parole mai pensate: su sollecitazione di un giornalista russo assoldato dalla Cia, nonché cugino di Vladimir Nabokov, risponde affermativamente alla abiura di Hindemith, Schönberg, Stravinsky, poi afferma di sottoscrivere i giudizi di Zdanov, e ascoltando se stesso tradire ciò in cui crede, sa di voltare le spalle alla musica.

Per quanto priva di approdi tragici, la vita di Shostakovich viene restituita in questo romanzo in tutta la sua drammaticità venata di opportunismi, e Julian Barnes si guarda bene dall’emettere giudizi, rendendo difficile anche al lettore sbilanciarsi a favore o contro l’antieroe di turno, ciò che sempre dovrebbe accadere in un’opera letteraria. Forse il coraggio, riflette Shostakovich, ha lo stesso destino della bellezza: chi lo ha posseduto vede solo ciò che è andato perso, gli altri, invece, quel che ne rimane. Sta qui, in questa debole resistenza che ogni volta si risolve in una resa, la costante della vita di Shostakovich che a Barnes interessa prelevare dai singoli accadimenti per farne la dorsale del suo libro.

Ma il capitolo più paradossale nella vita del musicista è quello che si apre all’insegna del disgelo. Benché sottoposta a revisione, la Lady Macbeth ancora una volta non passa al vaglio censorio della commissione riunita in casa di Shostakovich, che al pianoforte la esegue per intero cantando tutti i ruoli. Eppure, la fama del compositore è tale che l’appena insediato Chruscev ritiene opportuno sfruttarla a vantaggio della immagine che della nuova Russia intende propagandare nel resto del mondo: Shostakovich sarà presidente dell’Unione dei compositori, e in quanto tale dovrà entrare nel Partito al quale non aveva mai aderito.
Ogni due mesi andava dal dentista, una premura finalizzata a scongiurare che qualche danno gli guastasse la bocca; e ogni giorno – almeno nel romanzo di Barnes – si calava nella sua coscienza. Dalla visita medica usciva confortato, e in qualche modo meglio attrezzato alla vita; dall’esame delle sue azioni usciva invece malconcio; e allora si aggrappava alla convinzione che solo tramite la musica avrebbe potuto «annegare il rumore del tempo».