Certo che Derrida ha parlato dell’arte, delle arti – come avrebbe potuto non farlo, come non avrebbe dovuto farlo, dato che una questione e assai più di una questione, un’istanza esigente reclama, sotto il nome di «arte», un considerevole tributo all’intrapresa di pensiero da quando l’«arte» non è più quella «cosa del passato» (Hegel) che si faceva dapprima conoscere come una vicarianza dei servizi divini, eroici, gloriosi?
E, beninteso, egli doveva diffidare della parola «arte» – di questa forse più che di ogni altra parola ereditata dalla filosofia, poiché tale singolare non ha altra esistenza se non nella molteplicità delle arti, la cui congenita eterogeneità rimanda all’eterogeneità del sensibile stesso . E ne ha diffidato al punto da diffidare di se stesso – del discorso filosofico, voglio dire – nell’approccio e nell’apprensione dell’opera. A differenza di numerosi filosofi e teorici del suo tempo, Jacques Derrida non si è spinto che di pochissimo a parlare delle opere stesse, ad analizzarle o a esplorarle nelle loro strutture e nei loro aspetti sotto una prospettiva storica, tecnica o simbolica che sia. Di solito egli prende in un’opera l’avvio o lo spunto di un pensiero che fila e svolge lungo di essa. Così, scrivendo su Atlan giunge assai velocemente alle «storie» che tali pitture, dice, gli raccontano.
è troppo convinto, a priori, della completa autarchia dell’opera, della sua muta indipendenza – muta anche quando si tratta, per quanto riguarda il discorso, di poesia. Così nel suo accompagnare le Lignées di Micaëla Henich può scrivere: «È facile vedere la casa, vale a dire proiettarla in ognuno dei suoi disegni, ognuno bastante a se stesso e privo di qualsiasi bisogno della mia proiezione – voglio dire: delle mie eloquenti righe che, sia detto per inciso, allo stesso modo non hanno bisogno di essi».
«Eloquenti righe»: i tratti suoi propri, i tratti della sua scrittura. Ha appena scritto: «non dimenticate mai che anche le parole sono tratti, altrimenti detti righe attraverso le quali vedere senza vedere niente». Due ordini di tratti, di linee, dunque, l’uno accanto all’altro, che si accompagnano ma s’ignorano l’un l’altro. Vi è una fondamentale disparità, una discrepanza o una deiscenza – ma a partire da nessuna origine comune – tra questi ordini, regimi o registri di tratti. E ciò significa che né la filosofia ha il diritto o il potere di sequestrare l’opera, né l’arte ha il desiderio o la disposizione, e nemmeno l’attitudine nei confronti di un qualche discorso su di essa.
Tutta l’insistenza di Jacques Derrida sul carattere inaccessibile dell’opera, sull’alterità del tratto – disegnato, cantato, danzato – costituisce, nel contempo, un rifiuto di assegnare sotto «arte» o sotto «estetica» qualcosa che somiglia a una modalità di rendere conto o di rendere ragione dell’«arte» – e anche e probabilmente innanzitutto secondo il pensiero heideggeriano di una «messa in opera della verità» e allo stesso tempo un’affermazione dell’intricarsi, del contatto e della contaminazione fra tutti i tratti disparati, e innanzitutto beninteso tra i tratti dell’una o dell’altra delle arti e il tratto dell’una o dell’altra scrittura. In tale intreccio o in tale contagio, che cosa del tratto di scrittura e del tratto plastico o melodico fa contatto, incontra? È appunto il carattere di tratto – carattere comune che tuttavia non ha di «comune» se non la propria divisione, la propria disseminazione tra le parole da una parte e le forme e forze del senza-parola dall’altra.
Essa non diventa «arte» tuttavia, sebbene lo desideri, sebbene vi tenda – e chi dirà quale tensione d’artista, di disegnatore, di danzatore, di musicista si esercitava in «Derrida»? Non parlo della psicologia di Jacques Derrida, ma proprio della sua grammatologia. Poiché è precisamente questa «scienza» non scientifica, e certo nemmeno «artistica», ma questo sapere di ciò che eccede tali distinzioni, questo sapere della grammê, vale a dire del tratto in generale che non è tale se non nell’essere sempre particolare, è dunque questo sapere che allontana la scrittura della parola come si allontana da un significato di essenza il supplemento senza essenza di un’alterità e di un’alterazione che confonde, sposta e porta sempre più lontano la supposta trasparenza del significato puro.
Ciò può essere detto anche così: l’arte, dell’arte avrà sempre preceduto, lavorato, attraversato e alterato la pura trasmissione del senso puro. Oppure: non vi è senso puro, il senso è a se stesso la sua disseminazione e la sua alterazione. Il desiderio di Jacques Derrida è di rivolgere su se stesso il discorso il cui senso puro forma l’idea regolatrice e di metterlo in contatto con la propria alterazione, di fargli intravvedere l’ombra del proprio tracciato e in essa la prossimità inaccessibile di tutti questi tratti tracciati fuori dalle parole (o meglio attraverso di esse, mediante poesia).
Le «eloquenti righe» – bisogna vedere in questa espressione, allo stesso tempo, la diffidenza che sempre ci infonde, già da lungo tempo, la sola idea dell’eloquenza come idea dell’ornamento, dell’adulazione e dell’artificio e l’aspirazione discreta, poiché si tratta nondimeno di rendere giustizia alle «righe», a quella che un tempo veniva chiamata l’«arte della parola». «Arte della parola» che potrebbe anche non essere altro che un supplemento – e certo pericoloso – alla parola presunta retta, pura e viva, spogliata di arte e di artificio. Le eloquenti righe integrano e suppliscono a modo loro ciò che rigano altresì i tratti, le linee, i raggi dell’artista: il senso ne figura compiuto, la rappresentazione, il significato, il proprio o il tropo come giro del proprio.
Più avanti nello stesso testo , egli scrive: « giusto il tempo di prevenirvi mediante la cancellatura e la rigatura: questa non è una figura, non è quella buona, ciò che noi cerchiamo insieme è al di là della figura».
Al di là? Ma è qui: proprio qui dove l’uno e l’altro tracciano i loro tratti, rigano le loro superfici e le loro parole. Insieme? Sì, insieme l’uno come l’altro e l’uno con l’altro, ma questo «come» si sottrae a ogni analogia, non rimanda se non a ciò che fa sì che ogni aisthêsis sia come un’altra – vale a dire sensibile, essendo inteso che nessun sensibile, nessun senso è «come» né è comparabile, ma sempre incomparabile, irriducibile, inaccessibile dal di fuori, essendo esso stesso ogni volta apertura di un fuori singolare. E l’uno con l’altro: ma questo «con» obbedisce alla legge del «con», apud hoc, prossimità, scarto minimo, perfino infinitesimale, ma scarto nondimeno e, in quanto tale, insormontabile. Come lo scarto dalla parola al tratto, dal tratto di parola al tratto di matita, da un tratto di penna al tratto di un’altra penna, da un tratto di note a una trazione di danza.
Poco dopo, nello stesso testo, egli cita Silesius: «Ancora oltre Dio si deve andare. Devo esser sole io stesso: devo con i miei raggi / Dar colore al mare incolore della Divinità».
Righe diventate raggi. Al di là della figura diventano al di là di Dio, al di là dunque dell’al di là. E nello stesso tratto, nello stesso colpo dunque, Derrida diventa Silesius. Ma lui, Silesius, è già diventato ciò che dice di dover essere: il sole raggiante. Eloquente riga.

*Il saggio, inedito in italiano, è stato pubblicato nell’originale francese nei seguenti volumi collettanei: «Spettri di Derrida» (Genova, 2010) e «Derrida et la question de l’art. Déconstructions de l’esthétique» (Nantes, 2011).
La traduzione è di Michela Agostini. Si ringrazia Jean-Luc Nancy per aver permesso di tradurre e pubblicare questo estratto.