Recitare è l’arte di smuovere la propria sensibilità, dice il maestro all’allieva. Siamo solo alla prima delle sette «lezioni» che compongono Elvira, l’emozionante spettacolo allestito da Toni Servillo sulla scena del Piccolo teatro (fino al 18 dicembre) e coprodotto da Piccolo teatro e Teatri Uniti. E sembra di aver già toccato il centro del lavoro. Parigi, febbraio 1940. Su un palcoscenico ancora privo di scenografia si prova la scena del Don Giovanni di Molière in cui Donna Elvira si presenta nella casa dell’uomo che l’ha ingannata per chiedergli di ravvedersi. Il maestro è Louis Jouvet, uno dei grandi innovatori del teatro nella prima metà del Novecento. La giovane allieva, a cui è dato il nome fittizio di Claudia, si prepara all’esame finale del proprio corso.

Queste lezioni Jouvet le aveva fatte stenografare e parecchi anni dopo trasposte in un volume da cui Brigitte Jaques ha tratto il testo di Elvira, tradotto per l’occasione da Giuseppe Montesano. Si parte dunque da una situazione reale, che sembra riprodotta in maniera quasi mimetica nello spettacolo, già a cominciare dalla scelta per la parte di Claudia di un’attrice ventenne, Petra Valentini, da poco diplomata alla scuola Paolo Grassi.

Una fila di poltroncine vuote fronteggia il palco dove si prova. Il regista va su e giù. Commenta, interloquisce con altri due allievi. Interrompe e fa ricominciare. Un continuo va e vieni fra il sentimento che deve guidare l’attore e la comprensione del testo, dove al regista è affidata un’evidente funzione maieutica. Anche se in realtà quello fra il maestro e l’allieva è un processo di reciproco apprendimento. Secondo un principio che sembra attinto dalle scienze sperimentali, gli errori che rileva lo portano a una conoscenza sempre più carnale della commedia.

Ma non è questione di mimesi qui. Elvira, lo spettacolo, è un labirinto. Dove tutto è doppio o triplo. Servillo che è Jouvet, l’attrice che è anche Elvira. A ogni passo ci pone di fronte a una biforcazione che potrebbe allontanare ma che Servillo corregge continuamente, in un movimento a spirale che progressivamente avvicina al centro del lavoro. Che non è, non credo che sia solo un pur importante richiamo all’essenza dell’arte dell’attore, alla responsabilità che si assume andando in scena. Questo spettacolo ci parla (anche) d’altro – o si dovrebbe meglio dire che sempre il teatro parla di qualcosa che sta altrove.

Le ultime due lezioni portano la data del settembre 1940. Da qualche mese Parigi è occupata dalle truppe tedesche; la Francia ha capitolato. Per la prima volta il suono di quel che succede all’esterno penetra le pareti del teatro. La giovane attrice ha superato l’esame ma le prove con il maestro continuano, ostinatamente. La riportano di nuovo a quella scena che abbiamo visto ripetere ormai tante volte. Che alla fine vedremo compiersi, senza più interruzioni, prima che tutti loro si allontanino in fretta. Forse verso l’ultimo metro.

Ma proprio nell’ostinazione di queste prove sta il senso profondo di ciò che comunica lo spettacolo. Ciò che lo rende così emotivamente coinvolgente per lo spettatore. E può venire in mente il quasi contemporaneo Mito di Sisifo del più giovane Camus, che pure s’interrogava sulla medesima esistenziale necessità di senso. Quello che viene facile non è bene, ci aveva già detto all’inizio. Fare la propria parte, senza smettere di provare e riprovare, ricominciando ogni volta da capo, è l’ultima lezione che ci lascia. L’unica salvezza di fronte all’orrore.

Denunciata come ebrea, la giovane attrice verrà allontanata dalle scene; Jouvet si condannerà a un volontario esilio in Sudamerica durato tutti gli anni della guerra.