Solo poche settimane sono passate da quando un’altissima percentuale di italiani ha inteso dimostrare la sua sostanziale indifferenza nei confronti della rappresentanza parlamentare disertando le urne. Da allora gli eventi politici nel nostro paese non hanno fatto che consolidare e accentuare le intuibili motivazioni di quella scelta. Tuttavia, che il parlamento stesso votasse in maggioranza la sospensione della propria attività, sia pure per un sol giorno, (il Pdl ne pretendeva 3) non in conseguenza di una gravissima crisi sociale, non di fronte a un oceanico movimento di protesta, ma al seguito delle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi ha dell’incredibile, ma non è affatto inspiegabile.

Non erano altrettanto incredibili la riconferma di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica e il governo di larghe intese Pd-Pdl dopo una campagna elettorale apparentemente “all’ultimo sangue”? Eppure allora come oggi l’immancabile risposta è sempre stata la stessa: «non ci sono alternative». E’ il paradosso dell’ antiberlusconismo che, ritenendosi legittimato dal solo fatto di strepitare contro l’improntitudine del Cavaliere, nella assoluta povertà di spinta sociale e di progetto politico, non è riuscito a vincere le elezioni e si è trovato non solo a scendere a patti con il Pdl, ma a dover sottostare a ogni genere di condizionamenti e ricatti, fino a quello allucinato di ieri, che potrebbe significare l’inizio della fine dell'”unico governo possibile”.

Si poteva sperare di tenere davvero separate giustizia e politica (separazione sempre relativa in questo paese, se conserviamo memoria degli anni ’70, una stagione in cui i tribunali si sostituirono all’intelligenza politica) solo contrastando politicamente la controrivoluzione liberista che in Italia aveva assunto i tratti anomali del berlusconismo prima e seconda maniera. Aggredendone la sostanza, invece di limitarsi a ripulirla delle escrescenze più appariscenti e grottesche. Questo non è accaduto e la gestione della crisi, che in larga misura si collocava nella scia di Tremonti, assumendo tratti sempre più aspri di fronte all’irrigidimento delle istituzioni europee, non ha fatto che accelerare il decadimento della democrazia rappresentativa e salvare in extremis Berlusconi e la sua corte.

A questo punto le forze politiche della coalizione di governo non potevano che dedicarsi a minimizzare, alternare minacce a ripensamenti, sbandierando la vuota retorica del “fare”, rifugiandosi in una impotenza “senza alternative”, il cui estremo orizzonte è la conservazione del governo a ogni costo e a ogni condizione.

Intanto la giustizia segue il suo corso, ma nei fatti, non nella dottrina della divisione dei poteri, questo corso incrocia inevitabilmente quel poco che resta della politica. Alterando i tratti dell’una e dell’altra. Allo scontro politico subentra un miserabile incrocio di ricatti.

L’ “onore” delle istituzioni passa così nelle mani di Beppe Grillo che agita lo spettro di una insurrezione popolare alla quale il Movimento 5Stelle farebbe da unico e ultimo argine. Si preoccupa che i «problemi politici diventino problemi sociali» dando l’ennesima prova di non sapere di cosa parla. E’ proprio il mancato imporsi di un conflitto sociale, radicato nel rifiuto delle condizioni di vita imposte dal governo della crisi, a garantire la sopravvivenza della coalizione e a conservare il parlamento nella sua esistenza spettrale.