Nel 1989, per le edizioni Coliseum, con una copertina desolata ispirata al mondo di Georgia O’ Keeffe, era apparso: Emilio Villa, Opere poetiche – I; in quarta della medesima copertina si leggeva: «Questo è il primo dei volumi nei quali si tenta di raccogliere la sua dispersa opera poetica». Il volume restò solo, mai se ne ebbe il seguito, ma quell’annuncio anonimo, forse del curatore Aldo Tagliaferri, era quasi una sintesi di poetica: «si tenta di raccogliere… dispersa opera». È così, con i poeti come Villa: si può solo tentare (di raccogliere, di vedere nell’insieme, di leggere perfino) un’opera che per sua stessa natura, per costituzione, è dispersa e destinata alla dispersione: non tanto perché i libri che la costituiscono sono da sempre introvabili (e anche mania dei soliti collezionisti), ma perché nella dispersione sta il senso stesso dell’opera.

Villa se ne è andato nel 2003; era nato nel 1914 e, nel centenario della nascita (nella nuova serie della collana «fuoriformato» diretta da Andrea Cortellessa, che ha scopo nel proporre o riproporre titoli del Novecento variamente costeggianti l’avanguardia e la sperimentazione), ecco adesso L’opera poetica (L’orma editore, pp. 782, euro 45,00). La mole, rispetto al volume del 1989 è triplicata; non è «tutto Villa» – non potrebbe mai essere –, ma l’arco di svolgimento è completo, dalle prove iniziali ai testi apparsi postumi. L’impresa, di incontrollabile portata, era da far tremare le mani. L’ha assunta e portata a riva Cecilia Bello Minciacchi, che ha fornito una nota al testo di tipo filologico a ciascuna sezione e firma un’introduzione che è guida a lettori vecchi e nuovi («perché il senso di questo annientamento, di questa poesia distrutta si mostri nelle sue potenzialità, è necessario tuttavia tradire le consegne, e dunque raccogliere gli scritti, metterli in ordine, cercare di ricostruirne la lezione il più possibile vicina all’originale»); la postfazione è di Aldo Tagliaferri, curatore del volume Coliseum e «villiano» storico (suo, tra il molto altro, Il clandestino. Vita e opere di Emilio Villa, del 2004).

Possiamo accedere allora al mundiloquium. Se c’è una parola che designa Villa è questa. Non si sa quante lingue, tra moderne e antiche, Villa abbia praticato. E tutte per smontare e rimontare il potere della lingua, praticandone gli abiti e gli addobbi e mostrandone la nudità. Tutto insieme, ogni volta. Poeta contro il potere della lingua, Villa è stato dunque (è) un poeta anarchico, dominato da un’armonia profonda e ricca di armonici, manifestantisi in dissonanze, e ora in atonie o in politonalità, con sedimenti romantici: come, mettiamo, Schubert riletto da Webern (e talvolta, per contro storia, Webern letto da Schubert). Unità e frammenti, isomorfismi e reperti senza origine certa: Villa non solo ha tentato di praticare tutte le lingue del mondo, ma si è cimentato con tutti i registri di quelle lingue. Perciò nella sua opera, e nella sua stessa biografia, libertà e lingua sono la stessa cosa; e sono la «cosa» stessa, anche ricordando una sua esclamazione: «La libertà dal mondo. Il mondo in quanto oppressivo. Non parliamo di libertà in senso politico o in senso storico la libertà, cioè la liberta di sé dal mondo». All’inizio, forse, un fatto che parrebbe riguardare la biografia e che dunque si potrebbe forse dire psichico, e che qui si assume come scorciatoia narrativa: «il rifiuto della lingua italiana – scrive la Bello Minciacchi – di cui pativa l’ingombro e la costrizione fin dagli anni dell’infanzia». Ma poi, della lingua rifiutata per ingombro, Villa ha saputo essere fabbro e artefice: l’ha portata a incandescenze e ne ha messo in luce gli effetti di deriva, con tratti non di rado tecnicamente comici. In sintesi: l’ha risagomata per consegnarla in urgenza al futuro, lasciando anche intuire quanto in essa fosse reperto del passato. Insomma l’ha praticata facendone risaltare, come scavando nel sottosuolo, ere che sembrano essere geologiche, ma per intravista densità piuttosto che per effettiva durata. E praticando ogni marginalità per disperazione (conoscitiva) di un centro che risultava introvabile e, sostanzialmente, non necessario, perché riscontrabile, solo che si volesse, su ogni margine.
Quando Villa veniva pubblicando gli scritti poi confluiti in Attributi dell’arte odierna (ripubblicati qualche anno fa in questa medesima collana, presso Le Lettere), qualcuno inventò un soprannome che voleva essere ostile: «Villa dei Misteri»; ma quell’epiteto pompeiano coglieva nel segno se nel 1972 Villa stesso aveva scritto: «ogni segnale è un enigma; e la oscurità dell’enigma è la sola vicinanza alla vita». Come la sua scrittura che diremo critica in mancanza di termine proprio, anche la sua poesia è disseminazione (o raccolta) di segnali. In questo disseminare (o raccogliere) ha residenza la lingua quando se ne sia colto il palese o segreto potere.

Per questo, anche, la poesia di Villa è quasi meccanicamente avvicinata alle esperienze della avanguardie storiche e alle avanguardie in genere. Ma forse, a un ipotetico interlocutore, Villa avrebbe risposto come una volta Pizzuto; più o meno: «Avanguardista io? Ma se non sono stato nemmeno balilla!». Sfiorante le avanguardie, Villa, proprio in quanto esploratore solitario, è stato uno sperimentatore inaggettivabile: in sostanza, uno che va oltre e arriva prima degli altri; anzi: che spesso arriva dove gli altri non arriveranno perché lì non si sognano nemmeno di andare e non vogliono andare.

Per esempio: Villa ha poco o niente passione per il libro di poesia così come tradizionalmente inteso. Tutti i suoi titoli sono libri provvisori, libri per quel momento: si aprono ad altri libri perché bruciano se stessi nel momento in cui prendono forma, e dal bruciarsi traggono energia. Questa forma volutamente instabile che si tramuta in altre forme, che vira ora nell’informale ora nell’iperstruttura, è il mondo di Villa, come la figura mitologica che si fa cenere e dalla cenere ritorna volto, in moto e modo continuo e inconsumabile. Il discorso poetico si ramifica in glosse e quelle glosse sono il discorso, e così via.

Quanto si è detto non può che considerarsi come un ritratto da lontano, come una di quelle foto che vorrebbero abbracciare un intero paesaggio e finiscono per perderne i dettagli. Ovvero: dagli esordi agli esiti (i plurali sono d’obbligo) la poesia di Villa somiglia sempre a se stessa. Ciò che diventa ha in sé molto di ciò che era e di ciò che sarà: forse è una poesia dalla storia impossibile e di rivolta alla Storia, ma, non andrebbe nemmeno detto, ha un suo divenire brusco, rotture e saldature, elisioni e iati, e salti verso l’alto e verso il basso. Le terzine straniate che aprono il presente volume (Pezzo 1943: Comizio) in che rapporto sono con le Sibyllae, che cosa corre tra quell’italiano stranito e cumulativo e il latino intarsiato di italiano (o viceversa?) di Sibylla (cumana)? Quale il rapporto col latino di Verboracula e col greco di Le mura di t;éb;é? Quale mistero lega testi meno lontani fra loro come la Letania per Carmelo Bene e Zodiaco? L’introduzione e la postfazione, in modi diversi e complementari tentano una ricognizione interpretativa, lasciando continuamente incrociare il divenire della poesia di Villa e la sua entità, la diacronia e la sincronicità del suo linguaggio. Un punto è certo. L’elemento costitutivo di ogni poesia, il ritmo, è per Villa non meramente caratteristica del verso, ma dello scivolare di un verso nel seguente e in tutti gli altri. Perciò l’insieme della sua opera, sul ritmo, prende le sembianze di una grande, disperata danza: come in Nietzsche o in Valéry è musica nata da una tragedia a sua volta figlia della musica, corpo che diventa anima, anima che torna corpo. Così il titolo scelto per il volume, L’opera poetica non può proprio sentirsi come un titolo neutro o neutrale che dice di libri raccolti in volume, talmente l’aggettivo qualifica il modo del qualcosa che si fa, mentre si fa: l’operare (nel mondo o no, qualunque cosa sia) secondo ritmo. Ovvero, come resta in un appunto: «tutta la nostra partecipazione alla vita del mondo / si realizza nella nostra azione poetica». E qui, allora? Certo, come si diceva, una foto d’insieme che perde i dettagli, addirittura una polaroid di vecchia memoria; o, sconfitta prevista, cinemascope visto su piccolo schermo. Ma come altro si poteva descrivere Villa, tentando di descriverne la dispersione?