Con l’improvvisa scomparsa di Enrico Castelnuovo – il 15 scorso, a Torino, dov’era nato nel maggio del 1929 – la storiografia dell’arte ha perso uno dei pochi e veri maestri dell’ultimo mezzo secolo, non soltanto in Italia. Sarà terribilmente formulare, l’avvio, ma è il più giusto. Certo, una parola così enfatica: maestro, l’avrebbe accolta con un mezzo sorriso ironico. O meglio, autoironico: perché non gli sarebbe dispiaciuta del tutto, dal momento che non era neppure il tipo dello studioso appartato.

E poi, non ci si riferisce esclusivamente al suo lavoro universitario (aveva insegnato Storia dell’arte medievale a Losanna e Torino, prima, e dal 1983 al 2001 alla Scuola Normale di Pisa). Il ruolo che Castelnuovo aveva avuto già in precedenza nel campo dell’editoria non fu meno decisivo, forse, certo fu più largo. Redattore per alcuni anni in casa Einaudi, rimase poi a lungo (non sempre) come ascoltato consulente. Il contributo dato in queste vesti allo svecchiamento del dibattito storico-artistico in Italia appare ancora oggi formidabile. Risale a quella stagione l’uscita di libri (da Schlosser a Gombrich, da Wittkower a Kris) che cambiarono la percezione della disciplina. Ma uscirono anche, da Einaudi, saggi d’italiani, come la Fortuna dei primitivi di Previtali. E soprattutto ci fu la «Biblioteca di storia dell’arte», con Focillon, Lazarev, Ackerman, la riedizione di Pittura e miniatura nella Lombardia di Toesca.

Non fu quest’ultimo il solo caso in cui il tardivo recupero editoriale veniva compensato da una sua introduzione. Tanto che questo, come poi altri libri, rientravano in circolo a pieno regime. Quando capitò di leggere Arte e rivoluzione industriale, tre anni dopo la sua grande rassegna comparsa con lo stesso titolo su «Paragone» e poi usata come premessa alla pur tempestiva edizione italiana del libro di Klingender, si restò quasi delusi: sembrava che le pagine di Castelnuovo ci avessero già aperto orizzonti più vasti ed attuali.
In genere, si arrivava a quei libri attraverso letture di più facile accesso. La grande vitalità dell’editoria d’arte italiana aveva una base tanto più larga e nuova. Castelnuovo era già diventato l’indiretto maestro di una futura leva di storici dell’arte; anche di sinistra (e non era scontato), ma poco propensi alle generalizzazioni di Hauser o a perdere di vista le opere.

Forse nessuno fu altrettanto abile nello sfruttare quella geniale combinazione di testi agili e riproduzioni davvero utili, rivelatrici, a basso costo che furono i «Maestri del colore» (e «della scultura»). I suoi quattro fascicoli sul Gotico Internazionale in Europa, in Francia, nei Paesi Bassi, in quelli tedeschi, o soltanto quello su Fouquet, oppure – nell’altra serie – il Nicolas de Verdun e il Nicola Pisano abbinavano miracolosamente le ragioni della sintesi e quelle di un vero orizzonte storiografico; la chiarezza dell’informazione e il più raffinato aggiornamento critico. Anche le frequenti apparizioni giornalistiche – sul domenicale del Sole, sulla Stampa, nella sede più cara: «L’Indice» – confermeranno quelle doti. Con una scrittura nitida, che non consentiva di sorvolare sui problemi, Castelnuovo raggiunse i più alti esiti anche in occasioni nate per il primo servizio informativo.
Non fu insomma uno di quei «longhiani» che scambiarono l’insegnamento del maestro con l’imitazione della sua scrittura. Sotto questo aspetto, più che a Longhi e a Gadda, per così dire, guardò verso l’amico Italo Calvino. Fu appunto Calvino, una volta che gli fu chiesto di spiegare come si leggono i classici, a vederne in lui l’esempio perfetto: c’era un «ottimo storico dell’arte» che si era praticamente incarnato in un libro, Il Circolo Pickwick.

Lettore straordinario e non solo vorace, mai distratto e passivo, Castelnuovo aveva il genio della citazione, potenziata dal suo immaginario. I ricordi di lettura saltavano fuori in continuazione, nelle conferenze o a lezione.

Ascoltandolo, si poteva dare per certo che avrebbe presto scoperto qualche analogia fra la situazione presente e una descritta nel romanzo di Dickens. Come la cavasse fuori e l’adattasse, restava però sempre una sorpresa.
Si era laureato a Torino, su Andrea Pisano, con Anna Maria Brizio, studiosa forse già allora più fedele al vecchio Adolfo Venturi, che al figlio Lionello. Castelnuovo ne seppe ricavare un’idea solida della disciplina. Ma anche in quella scelta ci fu forse qualcosa di poco convenzionale, perché le premesse non erano state le migliori. Raccontava che all’esame non aveva rimediato più di un 28 e che quando Norberto Bobbio lo aveva spedito dalla docente di Storia dell’arte per averne la firma su un documento contro il Patto Atlantico, gli era stata rifiutata da una Brizio che era stata antifascista militante, ma era ancora lontana dalle simpatie per il movimento studentesco dei suoi anni milanesi.

La predilezione di Longhi per il Trecento avrà contribuito ad attrarre Castelnuovo a Firenze, per il corso di specializzazione. Una predilezione che troverà sbocco nel libro su Matteo Giovanetti, del 1962. Già il fatto che questo nome non figuri nel titolo: Un pittore italiano alla corte di Avignone, ma nel sottotitolo, dice subito quanto fosse lontano, Castelnuovo, dalla forma ancora vulgata di monografia. Sotto quel rifacimento di Mark Twain si nascondeva una rinnovata apertura verso la geografia dell’arte; verso le situazioni di corte, dov’è più facile che la committenza manifesti un suo stile; per gli spostamenti degli artisti a raggio europeo. Venivano insomma prefigurati sia molti dei suoi futuri argomenti di studio, sia le riflessioni di non astratta natura metodologica (Per una storia sociale dell’arte, in due puntate su «Paragone», prima che in un volumetto del «Nuovo Politecnico»; Centro e periferie, a quattro mani con Carlo Ginzburg, per il primo volume della Storia dell’arte italiana, e della sezione diretta da Previtali).

Almeno uno di questi argomenti di studio va ricordato, e non solo perché ricorrente: è quello delle Alpi, del ruolo delle aree di confine nella circolazione artistica. Per Castelnuovo i crinali alpini non erano linee di separazione, margini estremi e soltanto contigui di una doppia periferizzazione culturale. Gli interessavano invece come cerniere profonde, come attraversamento di persone e di cose; e nei momenti in cui l’osmosi era stata più forte. La natura del confine come valico e luogo di scambi figurativi diventa allora la metafora dell’intero lavoro di Castelnuovo. Che non corse sempre a rivendicare la specificità del campo artistico, al modo di Previtali (andrà studiata a fondo la pur amichevole tensione dialettica fra di loro). Ma anche per questo fu uno dei pochi storici dell’arte che trovò ascolto in altri ambiti storiografici; e non s’intende dire, se davvero sono stati pochi, che il danno sia stato tutto dalla parte loro.

Gli sarà parso una scorciatoia, parlare troppo di specificità. È invece fulminante l’immagine che apre la postfazione a una ricca raccolta di suoi saggi (La cattedrale tascabile, Livorno, Sillabe 2000): quella del rio San Silvestro e del Silvesterbach. Due ruscelli con lo stesso nome nascono uno vicino all’altro, sopra Dobbiaco. Le acque di uno, passando da affluente ad affluente fino all’Adige, arrivano nell’Adriatico. Quelle dell’altro al Danubio e al Mar Nero. Un ruscello diventa così la figura della produzione artistica, con il complesso sistema di addentellati sociali che ne è all’origine. L’altro è la figura della ricezione, della sopravvivenza delle opere nel tempo, con tutte le sedimentazioni materiali e culturali, le mutate funzioni. Il comune territorio in cui hanno origine corrisponde all’ambiente proprio degli storici dell’arte, il cui lavoro consiste però nel risalire lungo i diversi bacini, partendo a volte da molto lontano.

La zona delle sorgenti, nella metafora, Castelnuovo l’ha dissodata davvero. Benché non abbia mai coltivato in proprio l’attribuzionismo (ma ha sempre saputo fare le scelte più opportune, mi rispose una volta Michel Laclotte), ha lavorato anche «sul campo»: scarpinando per le valli alpine o nel cantiere di alcune mostre memorabili, in Piemonte e in Toscana. Se era limitativo farne semplicemente il longhiano più aperto in senso storico-sociale, come capitava di pensare verso il ’70 (perché di mezzo c’era Febvre e tanto altro); non sarebbe meno improprio credere che avesse finito per mettere da parte Longhi e Focillon.