Come prima cosa i diciotto musicisti dell’Ensemble Modern sono tutti seduti voltando le spalle al pubblico del Teatro Argentina. Vengono in mente i boppers degli inizi. Ma nessun dispetto alla platea, qui, nessuna intenzione di sfida al consumo standard di spettacoli. Schwarz auf Weiss (Nero su Bianco) è proprio l’offerta generosa e cordiale del fare musica, lettura di scrittura, teatro senza teatro, a chiunque ne voglia approfittare. Scena aperta, palcoscenico dove si susseguono le azioni sonore che man mano vengono costruite, effimere eppure studiate e pensate con attenzione. Heiner Goebbels ha ideato questo lavoro nel 1996 appena dopo la morte di Heiner Müller a cui lo ha dedicato.
Si ricordano lunghi frammenti o brevi lampi.

Perché gli accadimenti sono innumerevoli e registrarli è difficile. Una introduzione di tutta l’orchestra ha un netto sapore di banda, il motivo, pur sempre irregolare, è circense solenne. Gli strumentisti/attori, attori in quanto strumentisti, in quanto lettori «impassibili» di testi, in quanto interpreti di procedimenti di ricombinazione della forma-orchestra, si scompaginano, si dividono, si trovano in nuclei sempre diversi. Un trombettista suona in post-free semplice e legge una pagina di Maurice Blanchot (L’attesa, l’oblio). Si ascolta un quartetto d’archi in una breve sequenza minimal.

Torna tutto l’Ensemble per un altro scampolo di musica per banda che ricorda più il sinfonismo tedesco che le feste domenicali di paese. E modula poi verso il jazz, lasciando il campo a un saxtenorista che si getta in un assolo ultra-ayleriano, spasmodico, dirompente. Con cadenze che sembrano occasionali altri strumentisti leggono ancora Blanchot e l’Eliot della Terra desolata. Fin dall’inizio c’è una costante, un elemento di fondo, un riferimento affettivo e un’ipotesi di raccordo dei diversi materiali ed è la voce registrata del defunto Heiner Müller che legge L’ombra di Edgar Allan Poe, la legge senza nessuna «impostazione», uno tra noi, brontolando «dove sono finiti i miei occhiali».

Un coro salmodiante, un cantore fuori scena e una melodia mediorientale, siamo in clima klezmer, ma il tutto è accompagnato da rintocchi assai metropolitani di vibrafono e da un suono tenuto abissale, molto avant-garde, di contrabbasso. Una strumentista dispone lentamente il koto giapponese, come in un rituale, però senza recitare rituali di sorta, diretta, «moderna». Ne trae pochi suoni leggeri, evocativi, precisi. Non c’è esotismo, Goebbels usa linguaggi d’ogni tipo per cercarne uno nuovo, avanzato. E lo trova. Si assiste a una scena irresistibile, ormai mitica: un bollitore fischia, si vede la nuvoletta di vapore, su questo suono/visione un virtuoso di flauto suona una melodia dolce ma non troppo, «primigenia» ma non troppo. Per tutto il tempo sullo schermo appaiono e scompaiono le ombre degli strumentisti, con movimento secco, niente magia, piuttosto voglia di un realismo straniato alla Brecht, chissà.
Ensemble Modern di bravura diabolica. Inizia alla grande il Fast Forward Festival progettato per l’Opera di Roma da Giorgio Battistelli. Fino al 9 giugno serate di teatro musicale contemporaneo. La seconda serata è sulla carta importante, nei fatti deprimente. È occasione rara oggi un allestimento dell’opera di Sylvano Bussotti La Passion selon Sade (1965). Quello presentato al Teatro Studio dell’Auditorium è semplicemente deplorevole.

La terza sera al Teatro India il festival riprende subito quota, eccome, con Vie de famille firmato Jean-Pierre Drouet. Il celebre performer e compositore francese, ottantunenne, affida all’Ensemble Aleph una sorta di pièce sonora in dieci movimenti. La «famiglia» di straordinari interpreti è singolare: facce, corpi e abiti ostentano modestia e domesticità. Poi si capisce che la sanno lunga, molto lunga. Una melodia tenera per voce sola, i battiti di campanelli «astratti», un trio di voci che fa dell’amabilità un concetto pungente, una «conferenza» finale incredibile del percussionista Jean-Charles François dove si parla di «un non-lieu utopique», sono momenti preziosi.