Come due vecchi amici. Rivalità, scontri verbali e l’abbattimento del caccia russo da parte turca lo scorso novembre ora sono soltanto vecchi ricordi. Vladimir Putin e Recep Tayyp Erdogan ieri a San Pietroburgo si sono messi alle spalle la crisi di rapporti tra i due Paesi e hanno creato le basi per un’alleanza economica e, forse, anche strategica che potrebbe cambiare, in parte, le carte del poker politico mediorientale e del movimento delle risorse energetiche. «Abbiamo la volontà politica di riportare le relazioni con la Russia al livello pre-crisi o persino ad un grado più elevato», ha proclamato Erdogan durante la conferenza stampa sotto lo sguardo compiaciuto Putin al quale qualche istante prima si era rivolto con queste parole: «Mio caro amico signor presidente». Poi l’annuncio che sancisce un’allenza inimmaginabile appena sei mesi fa. «La Turchia – ha detto Erdogan – è pronta a fornire gas russo all’Europa rilanciando il progetto per la realizzazione del gasdotto Turkish Stream». La Turchia ha anche deciso di continuare i lavori per la costruzione della centrale nucleare di Akkuyu. «I progetti nel campo energetico richiederanno anche concrete decisioni politiche» ha aggiunto da parte sua Putin, visibilmente soddisfatto «il progetto Turkish Stream nella parte delle forniture di gas in Turchia non è soggetto ad alcun dubbio». Ma il clou della conferenza stampa è stato un altro annuncio di Erdogan. «Intendiamo sviluppare rapporti con la Russia nel settore della Difesa» ha detto senza fornire ulteriori dettagli salvo esprimere la speranza «che l’asse di amicizia fra Mosca e Ankara venga ripristinato».

Cosa ci sia di vero dietro quelle parole sulla cooperazione militare è difficile quantificarlo. Non è da escludere che si tratti di un avvertimento più che di un piano concreto. Un ammonimento rivolto all’Amministrazione Obama con cui i rapporti si sono fatti difficili dopo il fallito golpe del mese scorso in Turchia, seguito dalla mancata estradizione, richiesta da Ankara, di Fethullah Gulen, colui che Erdogan accusa di aver pianificato il colpo di stato, proprio dagli Stati Uniti dove vive in esilio volontario da anni. Oppure, senza mettere in discussione la presenza nella Nato, Erdogan segnala a Washington e ai governi europei che guarderà anche alla Russia per garantire la difesa e gli interessi della Turchia. Un patto stretto, ma fino a un certo punto, che potrebbe in qualche modo includere l’Iran, anche se solo per aspetti economici. Ankara oggi inquadra Tehran non più come una avversaria temibile sullo scacchiere mediorientale e l’alleata di ferro della Siria. Piuttosto considera l’Iran un Paese importante con il quale confrontarsi e, se possibile, condividere una soluzione per un aspetto centrale: la questione curda. Erdogan, come coloro che l’hanno preceduto, ha fatto della guerra, vera, alle aspirazioni curde un punto fondamentale del suo programma. La necessità di far abortire i sogni di autodeterminazione del popolo curdo – in apparenza sostenuti dall’Amministrazione Usa, specie nel Rojava – sono uno dei motivi di attrito tra Erdogan ed Obama e una delle ragioni che hanno spinto il leader turco a rivedere, parzialmente, il suo approccio aggressivo alla guerra civile che dilania la Siria e alla quale la Turchia, con il suo aiuto a jihadisti e islamisti radicali, ha contribuito per cinque anni.

Proprio la Siria è l’unico punto di insuccesso parziale del vertice di San Pietroburgo. Restano divergenti le posizioni di Putin, alleato di Bashar Assad, e di Erdogan che appena due giorni ha ribadito in una intervista che il presidente siriano deve farsi da parte subito. La questione siriana, ha detto Putin, richiederà un incontro speciale separato, dei ministri degli esteri e dei dirigenti dei servizi segreti dei due Paesi, perché siano affrontate tutte le questioni. «Ci scambieremo informazioni e cercheremo una soluzione – ha spiegato il leader russo – E’ possibile concordare posizioni sulla questione siriana poiché abbiamo obiettivi comuni e ci stiamo muovendo verso una soluzione reciprocamente accettata». Ma, ha poi aggiunto, «le trasformazioni democratiche possono essere raggiunte solo con mezzi democratici». Quindi non usando jihadisti e qaedisti, come ha fatto Erdogan, per abbattere l’esecutivo di Damasco.