È ufficialmente passato con 339 voti a favore il pacchetto di 18 articoli che emendano la costituzione turca e consegnano alla Turchia il super-presidenzialismo.

L’ultimo passo prima dell’ufficializzazione sarà il referendum popolare che dovrà tenersi entro due mesi, probabilmente con lo stato di emergenza ancora in vigore, con parlamentari d’opposizione in carcere, centinaia di media chiusi ed attentati ed episodi di violenza che sconvolgono il paese con ritmo pressoché quotidiano.

Grazie alle misure approvate il presidente potrà continuare a dirigere il partito d’appartenenza (incluse le nomine dei candidati alle elezioni), potrà sciogliere il parlamento, redigere il budget dello Stato, governare attraverso decreti legislativi, porre il veto alle decisioni parlamentari, scegliere il presidente e sei dei tredici membri del consiglio che nomina giudici e pubblici ministeri, dodici dei quindici giudici della Corte costituzionale (organo che tra l’altro si occuperà di giudicarlo nel caso di messa in stato d’accusa).

Potrà nominare ministri, ambasciatori e dirigenti pubblici, riformare le istituzioni militari, firmare gli accordi internazionali, dichiarare lo stato di emergenza e, in quanto comandante in capo delle forze armate, gestire l’intero apparato dell’esercito turco.

Erdogan ha fatto appello alla popolazione nel corso dell’inaugurazione di una nuova tratta di metropolitana ad Istanbul: «Lavorate giorno e notte per questo referendum», augurandosi che la nazione chiamata alle urne suggelli il voto di un parlamento che ha sacrificato se stesso in nome dell’uomo forte.

L’impatto delle grandi opere sulle recenti campagne elettorali si farà probabilmente sentire anche nella chiamata referendaria di aprile, ma progetti come il terzo ponte sul Bosforo o il nuovo aeroporto internazionale hanno avuto un notevole impatto anche sull’economia del paese e non in meglio.

Queste grandi partnership tra pubblico e privato, emblematiche del rapporto simbiotico tra potere politico ed economico, sono anche una delle cause della crisi economica che la Turchia attraversa.

Secondo un recente documento della Banca Centrale turca, il forte indebitamento del settore privato turco è anche legato ai mega-progetti, tanto cari alla leadership Akp, per i quali le compagnie private contraggono debiti che, pur garantiti dallo Stato, per essere onorati spingono le compagnie a rifugiarsi nelle valute forti come il dollaro, indebolendo al contempo la lira nazionale.

Erdogan ha dichiarato che tra i molti attacchi che la nazione starebbe subendo c’è anche un complotto economico per mettere la Turchia in ginocchio proprio nel momento in cui, consegnando a lui l’intero potere, cerca di liberarsi dall’ingerenza straniera.

Per il presidente non c’è letteralmente alcuna differenza «tra un terrorista che impugna armi e un altro che impugna dollari». Chissà cosa ne pensano in proposito al di là dell’Atlantico.

Obama ed Erdogan non si sono mai piaciuti ed i rapporti tra i due paesi sono caduti ai minimi storici. La rabbia di Ankara è dovuta al sostegno americano ai curdi in Siria sia alla reticenza nel dare seguito alla richiesta di estradizione dell’imam Gülen. Gli Usa non hanno gradito né l’ambigua politica di Erdogan verso lo Stato Islamico né i continui attacchi sui media.

Nel governo turco in molti sperano nell’effetto positivo del cambio alla Casa Bianca. Un segnale positivo per Ankara è arrivato dalle probabili nomine di James Mattis come segretario alla Difesa e di Rex Tillerson come segretario di Stato: entrambi sostengono la necessità di un riavvicinamento alla Turchia, a spese delle Sdf (Forze Democratiche Siriane), per tornare ad avere voce in Siria nel momento in cui l’asse tra Damasco, Mosca e Teheran sembra aver estromesso gli americani dal tavolo.

Sarebbe però errato pensare che l’insediamento di Trump nello studio ovale significhi automaticamente un’inversione di rotta nelle relazioni tra i due paesi. La Casa Bianca ha più volte ribadito come la decisione circa l’estradizione di Gülen spetti agli organi di giustizia americani e non al presidente, mentre finora i giudici americani hanno trovato deboli le prove su un coinvolgimento dell’imam nel tentato golpe del 15 luglio.

Sostituire i curdi e la loro affidabilità sul terreno siriano non è tanto semplice, soprattutto con l’operazione Sdf verso Raqqa che procede a pieno regime, mentre la Turchia è impantanata ad Al-Bab dove non riesce a sfondare la resistenza del “califfato”.

I raid congiunti di forze aeree americane, russe e siriane a sostegno della campagna bellica turca sono però sintomo di un desiderio collettivo di chiudere la faccenda Isis per poi giocare la partita che conta al tavolo di negoziato. Trump ed Erdogan siederanno dallo stesso lato?