La prima volta che la Turchia ha minacciato di rompere il patto sui migranti siglato con l’Unione europea è stato il 19 aprile dello scorso anno, esattamente un mese e un giorno dopo averlo firmato. Fu l’allora premier Amhet Davutoglu (dimissionato pochi giorni dopo dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan) ad avvertire Bruxelles che se non si fosse sbrigata ad approvare entro giugno la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi Ankara non avrebbe più trattenuto i tre milioni di profughi siriani presenti all’interno dei suoi confini.
Periodicamente agitato da Erdogan, il fantasma di una ripresa massiccia degli sbarchi torna ancora una volta a inquietare l’Europa. Siglata il 18 marzo 2016, l’intesa prevede che la Turchia impedisca le partenze dei profughi verso le isole greche dell’Egeo in cambio di 6 miliardi di euro e alcune importanti concessioni politiche prima fra tutte, per l’appunto, la possibilità per i cittadini turchi di circolare senza restrizioni all’interno dell’area Schengen. Con grande soddisfazione di Bruxelles l’accordo finora ha funzionato, facendo registrare una flessione degli sbarchi in Grecia dai diecimila giornalieri (picco raggiunto nel 2015) ad appena qualche decina. Il tutto ovviamente a scapito di quanti sognavano e continuano a sognare l’Europa.

Puntualmente, però, Erdogan chiede che gli venga saldato il conto: dei 6 miliardi di euro promessi, secondo Ankara sarebbero stati pagati solo 667 milioni (Bruxelles parla invece di 2,2 miliardi stanziati), ma soprattutto reclama quella liberalizzazione dei visti più volte promessa dal presidente turco ai suoi cittadini. Sulla quale però l’Europa ogni volta frena, giustamente preoccupata dalla repressione di Ankara verso chiunque si permetta di dissentire dalla politica del governo, a partire da giornalisti e intellettuali, e ulteriormente inasprita dopo il fallito golpe di luglio. Ma anche da un legge anti-terrorismo che Bruxelles vede più come un mezzo per far tacere l’opposizione interna.

A ogni tentennamento di Bruxelles, arriva da parte di Ankara la minaccia di far saltare l’accordo. Minaccia che si ripete oggi dopo il rifiuto greco di estradare otto militari turchi accusati di aver preso parte a golpe di luglio. Anche se in questo caso limita le minacce alla cancellazione dell’accordo di riammissione dei migranti irregolari dalla Grecia. Minaccia relativa, visti i numeri relativamente bassi dei rinvii oltre l’Egeo.

Ma davvero Erdogan sarebbe disposto a mettere fine all’intesa siglata con l’Unione europea? Di sicuro può far partire i migranti e le conseguenze sarebbero catastrofiche prima di tutto per la Grecia. Ma, per vari motivi, le ripercussioni di un simile atto potrebbero finire col pesare anche sulla stessa Turchia. I siriani rappresentano infatti un’importante fonte di ricchezza per la fragile economia turca. Nei primi tre mesi del 2016 i depositi bancari della media e alta borghesia siriana fuggita in Turchia a causa della guerra ammontavano a 360 milioni di euro, cifra abbondantemente superiore all’intera somma deposita nel 2015 e che ha continuato a crescere per tutto l’anno. A oltre 11 miliardi dollari ammonterebbe invece la cifra di denaro fatta arrivare in Turchia dalla Siria a partire dal 2011. L’Unione della camere di commercio turche ha inoltre registrato più di 4.000 imprese aperte dai siriani a partire sempre dal 2011, autonomamente o i società con imprenditori locali. Non a caso Erdogan ha più volte annunciato di voler concedere la cittadinanza turca ai profughi siriani.

Ulteriormente indebolita dagli attacchi terroristici che hanno fatto crollare il turismo del 30% e con una disoccupazione intorno al 12%, per sopravvivere l’economia turca deve contare anche su quell’Europa che Erdogan minaccia. Il Sole24ore ha calcolato che dal 2002, hanno dell’arrivo al potere dell’Akp, il 75% degli investimenti esteri in Turchia è arrivato proprio dal Vecchio continente. Solo con l’Italia, quarto paese partner, l’interscambio ammonta a 17,5 miliardi di euro (dei quali 10,6 di import e 6,9 di export), cifra che Ankara spera di portare a 30 miliardi di euro entro i prossimi 3 anni. Davvero il presidente turco, che con la riforma della Costituzione appena approvata potrebbe restare altri dieci anni al potere, sarebbe disposto a rischiare una crisi con l’Europa? Resta da vedere adesso cosa farà Erdogan, ma una cosa è sicura: difficilmente la situazione di stallo che da mesi si è creata tra Turchia e Unione europea potrà durare ancora a lungo.