È bastato uno squillo e il presidente turco Erdogan ha fatto (almeno ufficialmente) marcia indietro: la Turchia – ha detto giovedì dopo la terza telefonata in una settimana con il russo Putin – non è entrata in Siria per far cadere Bashar al-Assad ma contro il terrorismo.

«L’obiettivo di Scudo dell’Eufrate [operazione lanciata il 24 agosto dall’esercito turco] non è un paese o una persona ma solo gruppi terroristi – ha specificato – Nessuno dovrebbe avere dubbi o tentare di mistificare la realtà». Eppure solo due giorni fa aveva fatto il nome dell’arci nemico: «Siamo lì per portare giustizia, per porre fine al regime del crudele Assad». Lo stesso nome lo ha fatto di nuovo ieri il suo ministro degli Esteri Cavusoglu: «Assad non può garantire l’unità nazionale. Chi ha ucciso 600mila persone non dovrebbe governare nessun paese».

Allo stesso tempo, però, Cavusoglu ha detto di essere in contatto con Russia e Iran per individuare una soluzione politica alla crisi e chiesto un nuova tregua. Meglio salvare le apparenze creando un caos di dichiarazioni e smentite: se da una parte tiene buono l’alleato ritrovato, Mosca, in un periodo di crisi economica e strategica, dall’altra Erdogan continua a sostenere le opposizioni siriane e ad avanzare con i carri armati nella cruciale comunità di Al-Bab, 40 chilometri da Aleppo.

Sul piano economico salvare le relazioni con la Russia è fondamentale per Ankara, indebolita dalla fuga di investitori stranieri e ai ferri corti con l’Europa. Ma lo è anche per gli altri obiettivi militari che si è prefissata: annientare i movimenti kurdi in Siria e Iraq per distruggere quello interno. Se ne è discusso per sei ore mercoledì al meeting del Consiglio di Sicurezza Nazionale: «Si enfatizza con forza – si legge nelle dichiarazioni finali – che Pkk, Pyd e Ypg e altre strutture terroristiche non saranno assolutamente tollerate nel nord della Siria e nella regione di Sinjar in Iraq. Ogni mezzo necessario sarà usato per distruggerle».

Ovvero l’intervento armato: l’esercito turco ha chiarito di non aver intenzione di interrompere le operazioni in corso. Avanzerà verso Manbij, la comunità liberata dai kurdo-siriani ad agosto, dopo aver preso al-Bab. Proprio nei pressi di Manbij il 24 novembre, hanno fatto sapere ieri le Ypg, i bombardamenti turchi hanno ucciso due combattenti volontari, il tedesco Anton Leschek e lo statunitense Michael Israel. Due esempi di una lotta internazionalista nata intorno a Rojava e al suo progetto politico e, allo stesso tempo, degli scopi turchi nella regione: non l’Isis, ma l’unità kurda.

Ankara, inoltre, definirà l’intervento nella regione irachena di Sinjar, liberata sì dai peshmerga ma anche da unità di Pkk e Ypg, che non se ne sono mai andate. Una visione a tutto tondo che fa il paio con gli obiettivi in Iraq, dove a preoccupare Erdogan non sono solo i kurdi ma anche le milizie sciite alle porte di Tal Afar, città turkmena ad ovest di Mosul. Per velocizzare le procedure, ha detto l’esercito, alle truppe di stanza nella base irachena di Bashiqa si aggiungono i carri armati dispiegati a Sirnak, alla frontiera con l’Iraq.

La guerra non è destinata a finire. Persa Damasco, la Turchia guarda al nord della Siria e all’Iraq e accende le palesi contraddizioni che avvolgono le battaglie per Aleppo e Mosul. Nella capitale del nord siriana, gli scontri proseguono durissimi insieme alla fuga di almeno 31mila civili verso le zone governative e kurde (contro i “ribelli” combattono anche le Ypg). La Russia colpirà fino alla capitolazione definitiva delle opposizioni, ha detto il ministro degli Esteri Lavrov, ma ha anche aperto un canale di comunicazione con i gruppi armati – via Turchia, ovviamente – per giungere ad una tregua e permettere l’ingresso degli aiuti umanitari.

Ma le opposizioni, prossime alla sconfitta più cocente, non cedono e hanno annunciato la creazione di un fronte unico in chiave anti-Assad: è l’Esercito di Aleppo, guidato dal Fronte del Levante, noto partner turco, e di cui fanno parte tra gli altri i salafiti di Jaysh al-Islam e Ahrar al-Sham e unità dell’Esercito Libero Siriano (non si parla dell’ex al-Nusra, alleato però di molti dei gruppi coinvolti).

Ultimo atto prima che si chiuda il sipario, è la previsione di molti, ma che potrebbe allungare ancora i tempi della guerra: i “ribelli” si sono arrocati a sud est, seppure fonti interne parlino della possibile apertura al negoziato per uscire vivi da Aleppo. Come avvenuto ieri a al-Tal, vicino Damasco, dove dopo un accordo con il governo 2mila miliziani hanno evacuato la comunità con le famiglie e sono stati portati a Idlib, roccaforte dell’ex Al-Nusra dove ripiegano tutti i “ribelli” che si arrendono.

La stessa violenza accompagna Mosul. Ad un mese e mezzo dal lancio della controffensiva le truppe di Baghdad hanno strappato 23 quartieri allo Stato Islamico a est del Fiume Eufrate. Le condizioni di vita per il milione di residenti ancora presente sono catastrofiche: la metà  non ha più accesso all’acqua potabile dopo la distruzione della principale conduttura idrica. Non può essere riparata perché si trova in territorio occupato, dove gli islamisti si difendono con mine, cecchini, kamikaze e usando i civili come scudo: così “resistono” 6-8mila miliziani contro 100mila uomini.