Erdogan gioca ormai a carte scoperte. La vera minaccia alla stabilità turca non sono le bandiere nere dell’Isis, ma il nemico di sempre, il Partito curdo dei Lavoratori. Chiusi gli occhi sull’assedio di Kobane, spenti i motori dei carri armati che assistono immobili alla battaglia in corso nella città curda nel nord della Siria, in volo si sono alzati gli F16 dell’aviazione a bombardare postazioni del Pkk nel villaggio di Daglica, provincia di Hakkari, alla frontiera con l’Iraq.

Le bombe sono state sganciate lunedì notte, prima azione militare turca dal marzo 2013, quando entrò il vigore il cessate il fuoco. Secondo Ankara, i raid sono stati ordinati dopo attacchi armati contro una centrale di polizia a Daglica, compiuti sabato e domenica da miliziani del Pkk. Un’escalation seguita alle proteste della comunità curda in corso da oltre una settimana e che hanno provocato 35 morti. Ad Istanbul e Ankara e nel sud est curdo è esplosa la rabbia per l’apatia turca di fronte alla battaglia di Kobane, dove i curdi siriani di Rojava sono lasciati soli contro l’Isis. All’ira curda il premier Davutoglu ha reagito ieri con una minaccia dal sapore di rappresaglia: «Compreremo cinque Toma [veicoli militari corredati di idranti, ndr] per ogni Toma distrutto».

Non solo Ankara non interviene né manda munizioni a Kobane, rimasta quasi a secco, ma impedisce con la forza il passaggio di curdi che vorrebbero entrare in Siria. E viceversa: medici e parlamentari hanno accusato il governo di aver chiuso le frontiere ai curdi siriani feriti, lasciandone una decina a morire al confine. Una posizione aggravata dallo stop del presunto carico di armi inviato dai peshmerga iracheni: ieri un funzionario della regione autonoma del Kurdistan ha annunciato il rifornimento di assistenza militare ai curdi siriani, seppur da Kobane le autorità locali abbiano fatto sapere di non aver ricevuto nulla a causa della chiusura da parte della Turchia del corridoio di transito verso la città assediata. Munizioni e mortai sono bloccati in una zona a nord est della Siria, dice Alan Othman, portavoce dei curdi siriani: un invio «solo simbolico», ha aggiunto Othman. «Posso assicurare che c’è stato un invio e ce ne saranno altri», ha ribadito il funzionario curdo iracheno.

Nonostante combattano da soli, i curdi dell’Ypg ieri hanno respinto i jihadisti a est, ripreso il controllo della collina di Tel Shahir e rimosso la bandiera nera dell’Isis che sventolava sulla cima. Ma è la Turchia a restare al centro dell’attenzione della coalizione che da giorni fa pressioni su Erdogan perché intervenga. Ieri Davutoglu ha risposto con l’identitico mantra: «La Turchia non si imbarcherà in un’avventura [in Siria] dietro l’insistenza di alcuni paesi, a meno che la comunità internazionale non faccia il necessario e introduca una strategia integrata». Strategia che per Ankara è chiara: no-fly zone contro l’aviazione di Damasco, zona cuscinetto al confine e addestramento delle opposizioni al presidente Assad, vero target turco accanto al Pkk.

E proprio per ridefinire una strategia anti-Isis la coalizione ha completato ieri la sua due giorni statunitense: 22 paesi hanno discusso a Washington dell’avanzata islamista e la richiesta turca di una zona cuscinetto. Ieri sera anche Obama ha partecipato al meeting organizzato dal capo di Stato maggiore Dempsey che ribadisce ogni volta che può la necessità di inviare truppe di terra.

Lo Stato Islamico, intanto, prosegue in Siria nell’assedio di Kobane – controllata al 50% – e nell’avanzata verso Baghdad in Iraq. Nel mirino torna la provincia di Anbar: dopo la presa della base militare irachena di Heet, gli islamisti stanno espandendo il controllo nell’area, costringendo alla fuga 180mila persone. Un’altra ondata di rifugiati che si va ad aggiungere ai quasi due milioni di profughi sunniti, yazidi e cristiani; una fuga di massa seguita a quella dello stesso esercito iracheno che lunedì ha abbandonato in fretta e furia le proprie postazioni a Heet.

Con un esercito allo sbando, a guadagnare terreno sono le milizie sciite, gruppi armati ufficiosi impegnati nel conflitto contro l’Isis ma ingestibili da parte del governo centrale. Le stesse che oggi – secondo un rapporto di Amnesty International pubblicato ieri – stanno commettendo crimini di guerra contro civili sunniti, rapimenti ed esecuzioni, forti delle armi e il denaro inviato da Baghdad che ne ha bisogno per coprire il gap lasciato dall’esercito regolare. A indebolire un paese nel caos sono le divisioni settarie. Ieri si è registrato l’ennesimo attentato in un quartiere sciita di Baghdad: un’autobomba è esplosa ad un checkpoint militare nel distretto di Khazimiyah, 23 le vittime.