Pablo Alabarces insegna presso l’Università di Buenos Aires (UBA). Tra i fondatori della sociologia dello sport in America Latina, è autore di numerosi libri sulla cultura popolare argentina. Alcuni titoli: Fútbol y patria (Calcio e patria), Hinchadas (Tifosi), Héroes, machos y patriotas. El fútbol entre la violencia y los medios (Eroi, machisti e patrioti. Il calcio tra violenza e mass-media).
Professor Alabarces, in questi giorni – dopo la disfatta dell’Argentina contro il Cile nella finale di Coppa America, la seconda consecutiva contro La Roja dopo l’edizione del 2015, la terza finale persa negli ultimi tre anni – i media argentini hanno preferito concentrarsi sull’addio di Lionel Messi alla selección. Come spiega questo atteggiamento dell’opinione pubblica? 

Potremmo spiegarlo ricordando la mediocrità del giornalismo di oggi. Ma ovviamente, non è questo l’unico motivo. Un esempio? Discutere di un addio è meglio che ragionare su una sconfitta… Oppure, le conseguenze di questa rinuncia sono, per il calcio argentino, peggiori di una finale persa. Terza ipotesi, parlare della decisione di Messi aiuta a mettere in secondo piano il dibattito sulla politica e su un’economia che non attraversa certo un periodo florido. La cosa più probabile è che queste ragioni siano tutte valide e che nessuna vada esclusa.

La finale Argentina-Cile è coincisa con l’anniversario del successo di México ‘86, quello de «la mano de Dios» e del «gol del secolo». Questa concomitanza ci aiuta a capire cosa è successo nello spogliatoio argentino?

Ma certo… Messi non può fare un passo che non diventi oggetto di confronto con le gesta di Maradona. E non c’è dubbio che tutto questo è sbagliato. Ma è andata così, la povera Pulce ha sofferto «gli effetti dell’anniversario». Esattamente trent’anni dopo l’epopea che consacrò Maradona come grande eroe nazionale, per Messi sono stati i giorni del «fracaso», del fallimento. Un fallimento che però non esiste.

Se la storia non si ripete, figuriamoci i suoi protagonisti… Maradona appartiene al mito, alla leggenda. Messi è ben piantato nel presente e ha un futuro ancora da scrivere. Nonostante tutto, continuiamo a sovrapporre queste due icone che appartengono alla storia del calcio. Secondo lei, questo confronto è possibile? 

No, questo confronto è inutile e senza senso. Ho ragionato molto su questa cosa nei miei libri. Messi non può essere la «ripetizione» di Maradona. Eppure ciò che la narrazione eroica dello sport argentino si aspetta da lui è proprio questa replica: l’eroe plebeo nazional-popolare che conduce la patria alla vittoria. Tutto ciò è impossibile. Le dico perché c’è una spiegazione di classe. Messi non è un plebeo e non può fingere di esserlo perché nella sua biografia non c’è odore di fame e povertà. Ci sono ragioni storiche. Anche se Messi facesse una manita (cinque gol, ndr) all’Inghilterra, non ci troveremmo mai all’indomani di una guerra fra i due Paesi. Ragioni morali. Messi non è carismatico, limita la sua prestazione al copione che lo spettacolo globale vuole, una sceneggiatura ampiamente prevedibile. Messi quasi non parla e quando dice qualcosa, lo fa con il corpo, con il gioco. Messi è muto, è un cane, come ha detto lo scrittore Hernán Casciari. E i cani, non parlando, non possono diventare simboli nazionali.

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Ma cosa c’è del mito maradoniano nella parabola di Lionel Messi?

Messi ha dalla sua solo eccezionali doti tecniche. Per questo, di calcio potremmo parlare per ore, ma di mitologia patriottica un minuto sarebbe più che sufficiente… Calcisticamente, Messi è forse anche superiore a Maradona. La sua formazione, però, è ruotata attorno al trattamento per la crescita che ha ricevuto nel Barcellona quando era un adolescente. Tutto ciò lo ha sottratto inevitabilmente all’epica tipicamente argentina del calciatore che muove i primi passi nel potrero (il pascolo per i cavalli) e nella scuola calcio di periferia, consegnandolo alla logica della fabbrica europea (la Masía, l’accademia giovanile del Barça), tutta tattica e disciplina. Per questo a partire da Messi non si svilupperà mai una narrazione sportiva dell’Argentina, intesa come nazione. Dico di più. Anche se Messi vincesse una Coppa del Mondo facendo gol a raffica e da cineteca, rimarrà «un buen chico», un bravo ragazzo. Essere «un pibe», come lo è stato Maradona, è un’altra cosa…

E la politica dove la mettiamo?

Ci sono anche ragioni politiche, non possiamo non considerarle. Messi si è affermato in un’epoca fortemente nazional-popolare (il ciclo kirchnerista), ma è stato incapace di incarnare questa artificiosa costruzione. Maradona, invece, è stato un eroe nazional-popolare proprio quando i governi argentini degli anni ’80-’90 (Alfonsín, Menem) non facevano uso di questa retorica.

Ci aiuti a capire quest’ultimo aspetto. Sappiamo che Maradona è stato anche visto come una versione post-moderna di Perón e Evita…

Maradona è stato un simbolo peronista non a caso durante l’assenza del peronismo, fra il 1976 e il 1994, negli anni della persecuzione, della sconfitta o della sua trasformazione in populismo conservatore. Messi, invece, appartiene all’epoca del peronismo eccessivo, ostentato: l’epoca Kirchner. Pertanto, non può essere un simbolo peronista. Sarebbe di troppo…

Lasciamo da parte il calcio. La presidenza Macri in cosa si è distinta da quella di Cristina Kirchner in questi primi mesi di governo?

La presidenza Macri è un grande passo indietro in senso conservatore, in termini di redistribuzione del reddito, garanzie nel mondo del lavoro e diritti delle classi popolari.

E dove proverà a dare i maggiori segni di discontinuità? 

Il kirchnerismo era una grande sogno – una «fantasía» diciamo nella nostra lingua – che ha saputo però mantenere alta l’occupazione e favorire i consumi. Andiamo da un populismo vagamente progressista a un conservatorismo molto reazionario. La presidenza Macri, inoltre, ha un enorme livello di complicità con il peggio del calcio argentino. Mi ricorda Berlusconi, ma in senso peggiorativo.