In un parco dell’Illinois dei bambini giocano nella neve: sono passati quasi 200 anni da quando nello stesso luogo passarono i Cherokee, intenti a percorrere quello che divenne poi famoso come Trail of Tears, il sentiero delle lacrime. E cioè la lunga marcia di molte tribù indiane sradicate dalle loro terre in seguito all’Indian Removal Act, che stabiliva il ricollocamento degli indiani a ovest del fiume Mississippi, nell’odierno Oklahoma.

L’esodo forzato degli indiani è una delle undici «parabole» che compongono il documentario The Illinois Parables di Deborah Stratman, proiettato in concorso al Filmmaker Festival di Milano giovedì prossimo.
Attraverso l’osservazione dei paesaggi dello Stato del Midwest americano che dà il titolo al film, la regista – anche docente dell’Università di Chicago – riporta in vita le storie che li animarono e di cui furono teatro. Il «pellegrinaggio» di Stratman era partito come una ricerca sulla libertà religiosa: «Ero in cerca della fede – dice la regista – ma continuavo a imbattermi in esodi».

Come quello dei mormoni: in Illinois fondarono la cittadina di Nauvoo dopo essere stati cacciati dal Missouri, e furono ben presto costretti ad una nuova fuga verso ovest a causa della rabbia e del sospetto crescente del popolo nei loro confronti. Il loro leader Joseph Smith venne ucciso dalla folla inferocita proprio in Illinois, a Carthage, nel 1844.

Le molte migrazioni e ingiustizie che si celano nei paesaggi pianeggianti dell’Illinois travalicano così i confini dello Stato e si fanno allegorie della storia dell’intera nazione americana: «Cacciare e rimuovere le persone dalle loro terre fa parte della nostra storia sin dai suoi albori», osserva Stratman.

The Illinois Parables è girato in 16 mm, una scelta che la regista dice di aver fatto per via della particolare capacità della celluloide di essere «testimone degli eventi»: è la luce di un luogo e di un momento preciso a impressionare la pellicola, rimanendovi «intrappolata». «Così come la pellicola viene cambiata dall’azione della luce – dice Stratman – la Storia ha un effetto erosivo nei confronti del paesaggio».

La celluloide cioè è come i paesaggi protagonisti del film, su cui la Storia imprime il suo passaggio o rimane occultata e nascosta, ma sempre presente e pronta a emergere ogni qualvolta la memoria la riporti alla luce.                 

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Come è nato il progetto di «The Illinois Parables»?
Un mio film precedente, O’er the Land, riguardava il concetto di libertà: cosa vuol dire e di cosa ci priviamo in suo nome? La libertà religiosa doveva farne parte, ma poi il discorso si sarebbe allargato a dismisura. Così è confluito in The Illinois Parables. La mia scelta è ricaduta su questo Stato sia per ovvi motivi – ci sono nata – e sia perché nell’immaginario collettivo è un luogo noioso, senza attrattive, quindi da riscoprire.

Attraverso la storia dell’Illinois il film evoca quella dell’intera nazione americana.
Non ho mai voluto che il film fosse «provinciale»: volevo che avesse una qualità universale in termini etici e politici. Il locale è politico: l’intento è raccontare dei luoghi specifici ma al contempo ogni storia deve andare al di là di se stessa. Così che ad esempio qualcuno in Italia possa facilmente comprendere l’allegoria che c’è dietro ogni parabola.

Perché il tema dell’esodo è così strettamente connesso alla storia americana?
Credo che noi americani abbiamo un’idea molto peculiare della libertà, come se fosse qualcosa di nostra proprietà. Un senso di possesso che conduce al militarismo, a un perenne senso di accerchiamento, all’intolleranza. È un modello ricorrente del pensiero statunitense: gli undici episodi del film ci rendono consapevoli della durata di questo modello nel tempo.

All’indomani dell’elezione di Donald Trump questo «modello» assume ancor più rilevanza e attualità.
Dopo le elezioni l’interesse nei confronti del film è cresciuto, come se le persone ora vedessero la xenofobia e l’intolleranza che emerge dalle «parabole» molto più chiaramente. In realtà io le ho sempre lette come delle allegorie universali, ma mi rendo conto di come in questo particolare momento «rimino» tristemente con quello che è appena successo negli Stati uniti, ma anche in Europa, con la spaventosa ondata nazionalista che c’è stata in Inghilterra. Invece che aspirare a un sistema economico più equo tendiamo ad identificare l’oppressione come qualcosa che ha a che fare con la razza.

Delle undici parabole raccontate dal film qual è quella a cui si sente più legata?
Una delle storie che mi è più cara è quella di Wonet McNeil. È basata su eventi realmenti accaduti: era il 1948 e nella cittadina di Macomb cominciarono a verificarsi centinaia di misteriosi incendi in alcune fattorie. In breve tempo la vicenda ha cominciato a spostarsi sul terreno del mito: dozzine di articoli di giornale hanno dato altrettante interpretazioni pittoresche – per alcuni l’epidemia di incendi era causata da attività militari segrete, per altri si trattava di telecinesi o addirittura di fenomeni paranormali. In molti erano convinti che la colpa fosse dei materiali radioattivi nascosti sottoterra: da poco l’America aveva scoperto l’immenso potere delle armi nucleari. E credo che sia stata una corrente sotterranea di senso di colpa, o anche solo di ansia rispetto a un potere così distruttivo, ad aver contribuito all’ondata di angoscia collettiva suscitata dagli incendi. Alla fine si scoprì che era semplicemente l’opera di una piromane molto brava con i fiammiferi: Wonet McNeil, di soli dodici anni. Trovo che ci sia qualcosa di formidabile nel fatto che una ragazzina così giovane abbia avuto la capacità di scatenare questa sovversione dello stato delle cose.