L’ultimo rifugio di Imre Kertész (1929-2016), pubblicato in italiano nella limpida traduzione di Mariarosaria Sciglitano (Bompiani, pp. 265, euro 20), è il diario di un romanzo non scritto, in cui lo sguardo dello scrittore attraversa due secoli: per noi lettori, incagliati nel presente. Dello scrittore ungherese, premio Nobel per la letteratura nel 2002 a 73 anni con Essere senza destino (1975), sono stati tradotti in italiano anche Fiasco, Liquidazione, Kaddish per il bambino non nato, Storia poliziesca, Dossier K., Diario della galera, Il secolo infelice, Il vessillo britannico, Verbale di polizia (scritto con Péter Esterházy, scomparso pochi mesi fa).

IL TEMA DELLA MORTE, della conclusione rapida di un’esistenza che la vecchiaia e la malattia della moglie sembra rendere più confusa e pesante, riappare con tetragona costanza: «il tramonto sorge, da ogni canto,/ come un serpente maligno,/ emerge l’oscurità», insieme all’oscura paura del decadimento fisico, alla depressione che si mescola al disorientamento.
Autore ebreo galut (termine ebraico per diaspora, che Kertész utilizza), nell’Ungheria sua patria geografica e letteraria, in cui continuò a vivere al ritorno da Buchenwald, lager dove fu deportato dopo essere passato per Auschwitz, esperienza alle radici del romanzo che gli valse il Nobel. Nel 2003, tuttavia, in una intervista sulla rivista letteraria magiara «Élet és Irodalom» (Vita e Letteratura), affermò: «Ho scritto Essere senza destino nell’era Kádár. Chi viveva nell’Ungheria degli anni Settanta non poteva non rendersi conto immediatamente che chi aveva scritto questo libro conosceva il presente – e lo odiava. Ho descritto infatti il processo di adattamento che in ogni suo elemento rimandava all’epoca della storia ungherese successiva al 1956». Si tratterebbe quindi non di un romanzo sulla Shoah, ma sui caratteri del sistema totalitario, che nel kádárismo si incarna in una delle sue forme più ambigue.

PROPRIO LEGGENDO L’ultimo rifugio, sorgono dubbi in merito all’affermazione «scandalosa» di Kertész, che tante polemiche destò all’epoca: allorché l’autore riflette sui limiti della propria scrittura, ci si chiede se l’investitura del Nobel non abbia costituto per lui un peso tale da sbilanciarlo: l’enorme fama improvvisa, la partecipazione «obbligata» agli eventi, le interviste, il bisogno di dimostrarsi all’altezza del premio ricevuto, come l’esordiente di successo che deve dimostrare con la sua seconda opera di non essere stato solo un dilettante fortunato.
Dubbi amplificati da un’altra affermazione «provocatoria», che L’ultimo rifugio contiene: «Non appartengo alla letteratura ungherese e non potrò mai appartenervi. Io in realtà appartengo a quella letteratura ebraica dell’Europa centro-orientale sviluppatasi durante la Monarchia, poi negli Stati successori, soprattutto in tedesco, ma mai nella cornice di una lingua nazionale e mai come parte di una letteratura nazionale. Si potrebbe tirare questa linea da Kafka a Celan e, se si potesse prolungarla, lo si dovrebbe fare con me». Kertész sottolinea qui la propria collocazione sui generis nella letteratura ungherese.

TUTTAVIA, SE PURE è accaduto che alcune sue opere fossero pubblicate prima nella traduzione tedesca, come anche L’ultimo rifugio, apparso prima in Germania (Letzte Einkehr, 2013), il paragone con Kafka e Celan, ebrei di madrelingua tedesca, può reggere? Paul Celan, nato nel 1920 nella città oggi ucraina di Csernyivci, all’epoca Cernauti (ted. Czernowitz) nella Bucovina rumena, cresce alla periferia della Grande Romania post-bellica nata dalla dissoluzione dell’Austria-Ungheria, in un territorio plurilingue in cui ancora convivevano etnie e religioni, e la sua famiglia verrà annientata dalla Shoah. La biografia del praghese Kafka si sviluppa nell’impero asburgico multiculturale e multilinguistico. Le loro opere sono inserite nel canone della letteratura tedesca. La biografia Kertész è imparagonabile: è vissuto e ha scritto nel contesto di una letteratura nazionale, che si esprime in una lingua nazionale, l’ungherese.

COSA AFFERMA, dunque, quando sostiene di appartenere alla tradizione di quella letteratura ebraica, principalmente di lingua tedesca, che si sviluppò nei confini di un impero ormai dissolto? Si può forse leggere in questa sua affermazione il bisogno di riconoscere la propria grandezza, allorché – attraverso il Nobel – si afferma che ha creato qualcosa di non effimero, un’opera destinata ad rimanere nella letteratura mondiale? L’ultimo rifugio è forte, denso, riflessivo, puntuale; un libro spigoloso, scritto con una schiettezza che a tratti può apparire un po’ impudente, allorché il giro di boa del tempo toglie ogni superflua prudenza. Ma Kertész è duro e schietto soprattutto con se stesso, trova e sottolinea i proprio limiti invalicabili di scrittore e di «civile»: «ammetto a malapena che i miei libri offrano davvero qualcosa alla gente; mi ha accompagnato ininterrottamente l’impressione di essere un impostore, mi comporto come se imitassi il mio ruolo, ogni gesto è forzato, parlo e non ho nulla da dire. Credo di essermi abituato oltre misura ai cattivi comportamenti, al punto da ritenerli più naturali dei riconoscimenti: sono troppo profondamente imbevuto della mia educazione ignobile in mezzo agli ungheresi». L’ultimo rifugio contiene importanti temi di riflessione: il ruolo dell’intellettuale, il permanere delle categorie politico-socio-culturali di Europa occidentale e orientale, Auschwitz, il suo essere ebreo e il rapporto con Israele, l’antisemitismo contemporaneo e la costante paura dell’annientamento, le radici del nazionalismo «che infiamma rabbioso i popoli dell’est (…) come febbre», la letteratura dell’emigrazione, il valore della propria opera: «Probabilmente quello che ho creato non ha alcun senso: chi legge in ungherese? Qualche agente segreto in missione speciale». Il rapporto faticoso e contraddittorio con l’Ungheria lo spingerà ad un «esilio» berlinese insieme alla moglie: «siamo contenti della solitudine berlinese.

NON C’È PIÙ POSTO per me nella frustrata Ungheria dove – a causa di un’invidia acuta – ho perso la maggior parte dei miei amici; nel paese che dovrei considerare la mia patria non comprendono e non comprenderanno mai perché ho ricevuto “proprio io” il premio Nobel; perché è ebreo, dicono, assentendo alla grande, come chi sa bene come va il mondo». Infine, una sorta di nausea interiore, la tentazione del suicidio, ammiccante come una stella malvagia, quando misura «la distanza tra il balcone e l’asfalto».