“That’s Jackson Pollock. – In a word… I was just getting used to the idea of dead, maggoty meat being art. Now this?», si chiedeva Connie Baker, un’allieva del Wellesley College in Mona Lisa Smile, un pessimo film di Mike Newell del 2003, nel quale Julia Roberts interpretava la parte di un’insegnante moderna e rivoluzionaria che prova a interessare le sue studentesse bigotte all’arte contemporanea. Dopo i pezzi di carne putrescente pendenti dall’alto dei quadri di Francis Bacon, l’espressionismo astratto sarebbe stato davvero la goccia che fa traboccare il vaso, se Pollock non avesse avuto il potere magico di convertire le studentesse a uno sguardo nuovo sull’arte. Potere magico dovuto alla concezione eroica dell’artista creatore, che scioglie tutto in una sentimentalissima melassa scolastica stile L’attimo fuggente grazie al mito americano che l’individuo può migliorare il mondo. Su questo mito si è fondata tuttavia la rivoluzione artistica degli anni cinquanta e sessanta che ha cambiato per sempre la storia dell’arte mondiale, cui ora rende omaggio la Royal Academy of Art di Londra con una mostra, la prima in Europa dopo oltre cinquant’anni (The New American Painting risale al 1959), che esalta e sistematizza la più grande stagione creativa dell’ultimo secolo: Abstract Expressionism, fino al 2 gennaio; catalogo a cura di David Anfam, Royal Academy of Arts, pp. 320, sterline 40 in hardcover e sterline 28 in softcover).
La definizione di Robert Coates
Spazi enormi per tele enormi rendono davvero grandiosa l’esposizione; tanto che indignarsi per qualche accostamento frettoloso (Reinhardt e Newman, ad esempio, sulla base di assimilazioni geometriche, o Krasner e Motherwell, per l’uso dei neri) oppure per le sezioni tematiche piuttosto arbitrarie è inutile snobismo posticcio. La mostra merita gli aggettivi più iperbolici perché il solo fatto di avere quattro sale monografiche dedicate a Pollock, Rothko, Still e De Kooning è di per sé un valore assoluto: poterli vedere tutti insieme, anche se l’astrattismo andrebbe isolato anziché affollato, è esperienza visiva e intellettuale straordinaria.
Abstract Expressionism è una formula proposta dal critico d’arte Robert Coates nel 1946 sul «New Yorker» per definire le caratteristiche comuni dell’opera di Gorky, Pollock e De Kooning: riconoscendo il ruolo pioneristico di Hans Hofmann, Coates si proponeva di nobilitare (e pure istituzionalizzare) quella che fino ad allora era stata «the spatter-and-daub school of painting» (la scuola di pittura schizza-e-spalma) attraverso un riferimento a Kandinski, per il quale Alfred Barr aveva parlato di «espressionismo astratto» per la prima volta nel 1929. La contraddizione terminologica, che univa il massimo del ritrarsi (l’astrattismo, arte del togliere) col massimo dell’insistere (l’espressionismo, arte del premere), funzionava, al punto che la formula si diffuse fino a definire un vero e proprio movimento, cui gli artisti coinvolti mai si sottrassero. Hofmann fa solo capolino alla Royal Academy, ma la scelta di privilegiare l’orizzontale (l’insieme) anziché il verticale (il background) può difficilmente essere contestata, perché gli espressionisti astratti hanno in comune la tendenza a considerare la tela come un’arena e la pittura come un evento, come scrisse Harold Rosenberg, l’inventore dell’altra fortunatissima formula che ha definito quest’esperienza, action painting. In realtà, se action painting è prima di tutto gesto, trasformazione della pittura da prodotto in operazione, abstract expressionism è ancora forma, perché al centro c’è la tela, luogo della lotta esistenziale dell’artista per l’espressione. Quando Peggy Guggenheim chiedeva a Pollock il suo Mural, l’obiettivo era ancora la tela anziché l’artista, avere un Pollock anziché possedere Pollock: ecco perché una mostra di sole tele (con qualche scultura nello spazio esterno e una sala di fotografie), senza molto contesto storico e percorso biografico, è in questo caso decisamente opportuna.
L’opera sciocca ancora, insomma, fino a provocare l’ozioso dibattito se si tratti di arte oppure no, come se l’estetica dovesse rispondere a regole scritte a tavolino e immutabili nella storia. L’impatto visivo è infatti mostruoso, con il risultato che finalmente si può apprezzare da vicino quanto formule come «fatto a caso» e «potrei farlo anch’io» non significhino niente, visto che il caso è diretto da una formazione e una maestria e l’io sta proprio nell’esperienza del fare anziché in un vacuo rivendicare. Leggere Blue Poles, uno dei capolavori di Pollock in mostra alla Royal Academy, come il prodotto di una spontanea intensità sentimentale, nato da un ispirato action painting oppure da furia alcolica, due dei miti su cui si è fondato il culto di Pollock, significa non accorgersi della sua straordinaria bravura nel velocizzare la linea assottigliandola o nel rallentarla inondandola: si era limitato a sostituire il colore con la linea, indicava Frank O’Hara già nel 1959, ma il suo lavoro era esattamente lo stesso che gli artisti avevano sempre fatto. Né è esplorazione istintiva dell’inconscio Woman II di De Kooning, che solo fasulle etichettature potranno ridurre a rigurgito figurativo o problematica gender, quando si tratta di dar voce a un passaggio artistico, con Picasso oltre Picasso. Rothko, Kline e Still non pongono neppure il problema, perché per loro tutto è forma: pura ricerca del bello visuale.
1950, Nina Leen su «Life»
L’obiezione più interessante è invece quella politica, perché gli espressionisti astratti pensarono certamente più al loro successo che a modificare i rapporti di forza nella società con opere, come si sarebbe detto un tempo, socialmente impegnate. Il loro obiettivo era però scalzare i padri non per affiancarli, ma per sostituirsi a loro: The Irascibles, si chiamarono, e così li immortalò come gruppo in una splendida e famosissima foto del 1950 Nina Leen su «Life», perché a loro si deve il mito della potenza creatrice contrapposta al canone tramandato per tradizione. Mito iperborghese, certo, ma non privo di una logica di scontro generazionale, di un ribellismo e di un giovanilismo che segneranno tutta la successiva società dello spettacolo, come la chiamerà Guy Debord nel 1967, ben dopo che loro ne avevano costruito e promosso caratteristiche e conseguenze. Difficile negargli lo statuto di movimento, allora, ben prima del Sessantotto, a dispetto di chi (il curatore della mostra, David Anfam) preferisce chiamarli soltanto «fenomeno» in considerazione del fatto che non si diedero mai un manifesto né fecero campagne di reclutamento: agirono di concerto, però, consapevoli che l’arte è il medium più potente per creare miti collettivi e valori condivisi – sono degli anni sessanta i saggi di Marshall McLuhan, da Understanding Media a The Medium is the Message, che rivoluzionavano il rapporto tra mezzo e messaggio nella moderna comunicazione di massa, demolendo l’antico credo dell’autonomia dei contenuti. Abstract expressionism anche qui era arrivato prima.
La New York School (altra definizione del gruppo, per chi non amasse gli ismi) non fu certo solo il trionfo dell’individualismo capitalista nell’arte (comunque innegabile, se Pollock è passato dai 65 dollari della prima valutazione di Peggy ai 200 milioni circa che Ken Griffin avrebbe da poco pagato per Number 17A), ma anche uno straordinario momento d’incontro tra energie creative e bisogno di cambiamento. Chi dovesse uscire dalla mostra senza essere sovreccitato e senza respiro, è o cieco o morto o un po’ coglione, ha scritto il critico di «Time Out», Eddy Frankel: a volte si può avere il coraggio di essere semplicemente d’accordo.