La Grecia aveva sperato di poter convincere partner Ue e mercati di aver intrapreso la strada del risanamento, per potersi liberare prima del previsto (2016) della tutela della trojka (Fmi, Ue, Bce), facendo coincidere la ritrovata indipendenza con la fine dell’assistenza finanziaria della Ue, a fine anno. Atene sperava di poter aprire nel prossimo anno la rinegoziazione del debito pubblico. Ma i mercati hanno risposto picche: inquieti, anche per l’instabilità politica e possibili elezioni anticipate nel 2015, ieri hanno fatto crollare le Borse europee. Atene guida il crollo, ha sfiorato meno 6, e i tassi di interesse per le obbligazioni a 10 anni hanno superato il 7%, un record negli ultimi sette mesi. La fragilità della zona euro (unita a dei dati macroeconomici Usa non troppo favorevoli, con un inatteso ribasso dei prezzi) ha fatto il resto: tutte le Borse sono state in calo, Milano ha superato meno 4, Parigi meno 2,7, Londra meno 1,9 e Francoforte meno 2,1%. L’Eurostoxx 50 (il top delle 50 società quotate) è caduto a meno 2,6%. La Grecia, che è stata messa fuori dai mercati finanziari nel 2010, ha effettuato un primo ritorno nell’aprile scorso, poi di nuovo all’inizio di luglio, dove già ci sono stati segnali di scetticismo (ha potuto collocare solo 1,5 miliardi a 3 anni al 3,5%).

Ieri, nel giorno-limite per la consegna alla Commissione delle finanziarie dei paesi della zona euro, i mercati hanno manifestato una forte inquietudine, a riprova della sovranità limitata in cui si dibattono ormai i governi. La Commissione adesso ha tempo fino a fine mese per un parere sulle proposte dei 18 paesi euro. Poi, se constata una “mancanza grave” rispetto agli impegni – il famoso 3% di deficit, in seconda battuta il 60% di debito rispetto al pil – può “avvertire” e poi chiedere una “rettifica” al paese imputato. Se la risposta non è giudicata sufficiente, toccherà poi al Consiglio votare, a maggioranza qualificata, l’applicazione della “procedura” di punizione. Se il paese colto in fallo è già sotto “procedura per deficit eccessivo” (Francia, Spagna, Irlanda, mentre Italia e Germania ne sono uscite) allora dovrà reagire in tempi precisi per correggere lo scarto. L’ultima tappa, che non è mai stata applicata a nessuno, è la sanzione, con penalità finanziarie pesanti (prima un deposito pari allo 0,2% del pil, che verrà restituito quando gli impegni del Fiscal Compact verranno rispettati, poi la multa, tra lo 0,2 e lo 0,5% del pil, che sarà decisa a maggioranza qualificata rovesciata: cioè ci vorrà una maggioranza qualificata per respingere la sanzione, come dire una cosa impossibile).

Alla Grecia è stata subito rimessa la testa sotto l’acqua. Ma altri paesi sono nel mirino. Oltre all’Italia, c’è in prima fila la Francia. Parigi ha presentato una finanziaria che sfora i parametri: il deficit sarà del 4,3% nel 2015 (4,4% quest’anno), malgrado 21 miliardi di tagli (che saliranno a 50 in tre anni). La Commissione e Berlino fanno pressione perché il governo Valls si ravveda. Il ministro delle finanze, Michel Sapin, ribatte a Bruxelles: “la sovranità spetta al parlamento”, che questa settimana ha cominciato a discutere il progetto di finanziaria. Sapin afferma che la Francia non chiederà un trattamento di favore a Bruxelles, ma spiega che la Commissione deve tener conto della congiuntura sfavorevole e lasciare maggiore flessibilità e più tempo in un periodo senza crescita con una forte disoccupazione. Per calmare la fronda socialista contro un bilancio di austerità, che per di più non basta a Bruxelles e Berlino, il governo afferma da un lato che non aumenterà i tagli, ma dall’altro il ministro dell’economia, Manuel Macron, ha presentato ieri un progetto di legge di liberalizzazioni (legalizzazione del lavoro la domenica e di sera, lotta alle corporazioni – farmacie, dentisti, professioni giuridiche, autobus) per cercare di ottenere il via libera dalla Commissione. Nella speranza che la Germania, minacciata dalla recessione, investa (per le proprie infrastrutture). Ma il ministro dell’economia, Wolfgang Schäuble, gela le speranze di Parigi: la crescita non si ottiene “firmando degli assegni”. Per Berlino, l’equilibrio di bilancio, che la Germania prevede nel 2015 – la prima volta dal ’69 – resta un assioma.