La montagna più alta del mondo non è la più pericolosa, né la più difficile da scalare e nemmeno la più bella. Al di sopra dell’Everest però c’è solo il cielo.

Ed è questo l’unico, semplice, motivo per cui 5.832 esseri umani ad oggi ne hanno scalato la vetta.

Everest, il film di Baltasar Kormákur che apre Venezia 72 racconta una disastrosa spedizione del 10 maggio 1996 in cui una tempesta uccise 5 alpinisti bloccati in vetta. Da allora, le polemiche verso chi sale sul tetto del mondo sono state feroci quanto il clima himalayano.

Su quelle pareti sono morte in tutto 282 persone. Ma più aumentavano le ascensioni più diminuiva il tasso di mortalità. Dal 1921 al 2000 sono morte 170 persone su 1.169 arrivate in vetta (una mortalità del 14,5%). Dal 2000 a oggi 112 su ben 5.832 ascensioni completate, l’1,5%.

Negli ultimi due anni, vista la strage di sherpa alla seraccata di ghiaccio di Khumbu dell’anno scorso (16 morti) e l’enorme slavina sul campo base di quest’anno (19 morti) durante il terribile terremoto che ha colpito il Nepal, pochissimi sono saliti sul tetto del mondo.

Solo un giapponese di 33 anni, Nobuzaku Kuriki, si è prenotato per l’ascesa da quando il 24 agosto scorso Kathmandu ha riaperto le vie dopo 150 giorni di stop (Kuriki ha poi dovuto abbandonare l’impresa all’inizio di ottobre dopo due diversi tentativi)

Per le spedizioni, l’Everest si può salire da due lati. Il versante Sud, quello nepalese fino ad oggi preferito, e quello Nord, tibetano, considerato più tecnico e meno agevole dal punto di vista burocratico visti i chiari di luna con le autorizzazioni concesse da Pechino.

Il turismo è un’entrata molto importante per il Nepal, il 4% del Pil, fonte di lavoro per 500mila persone. Logico che né gli sherpa né le istituzioni e i commercianti vogliano limitare gli accessi alle vette himalayane.

Uno sherpa può guadagnare 3mila dollari a stagione (sei settimane) in un paese in cui il salario medio è di 700 dollari l’anno. Una spedizione può costare tra i 35mila e i 60mila dollari a persona (di cui 11mila come «tassa di permesso»). Gli sherpa hanno ormai quasi il monopolio delle spedizioni (ne organizzano il 70%) e in un certo senso «controllano» il territorio come proprio, anche con qualche scontro con gli alpinisti «indipendenti» (è capitato nel 2013 a due fuoriclasse come Simone Moro e Ueli Steck).

Fare lo sherpa resta ambìto ma pericoloso. E faticoso. Si tratta di trasportare a valle dal campo base, il più basso, a 5.400 metri, i bidoni pieni di liquame delle latrine, allestire chilometri di corde fisse e dozzine di scale di metallo sui crepacci, montare tende e cucine da campo, gestire e muovere quintali di materiali tecnici, garantire la sicurezza nel «viaggio» dei propri clienti.

In un ambiente estremo che nonostante l’antropizzazione resta quasi impraticabile per l’uomo.

Tanto più per la marea di alpinisti giovani e soprattutto inesperti che negli ultimi anni hanno iniziato a inondare le pareti nepalesi. «Quest’anno sono rimasto scioccato nel vedere così tanti ventenni sulle pareti dell’Everest – ha raccontato alla rivista specializzata Rock&Ice l’alpinista Alan Arnette (4 ascensioni solo sull’Everest) – gente senza nessuna esperienza, con appena qualche escursione sul Kilimangiaro alle spalle». Durante il terremoto di aprile, almeno 600 persone affollavano i primi tre campi in fila per salire dal lato sud. «L’amara verità è che se hai i soldi puoi entrare in qualsiasi cordata», conclude Arnette.

Una faccenda più da turismo d’alta, altissima, quota che alpinismo.

Reinhold Messner, La Stampa, 30 agosto 2015
Cosa rappresenta per lei oggi l’Everest? «Un palcoscenico per tutti quei matti che non sanno scalare e si fanno portare in cima. Non dagli sherpa, ma da tante agenzie di viaggio: turisti che pagano per fare il tour»

Nessuna nuova via viene aperta da decenni, l’Everest è tutta una questione di altezza. Contrariamente al senso comune, infatti, la prima causa di morte non sono slavine o cadute ma l’altitudine stessa, che causa infarti e pesantissimi mal di montagna.

Ma anche salire sul tetto del mondo con l’aiuto degli sherpa e dell’ossigeno (come fa il 99,9% degli alpinisti) non è una passeggiata. Le bombole rendono l’atmosfera degli 8mila simile a quella dei 6mila, non certo il livello del mare. Perciò ogni mossa è faticosa, ogni pensiero estremo, ogni sforzo potenzialmente letale, fisicamente e psicologicamente.

L’altitudine uccide.

E viste le file di scalatori sulle pareti innevate degli ultimi anni, dalle parti dell’Hillary Step (la parete di 12 metri più vicina alla vetta) la poesia è forse finita nel lontano 1978, quando l’italiano Reinhold Messner e l’austriaco Peter Habeler sono stati i primi ad arrivare in vetta senza bombole (e a scenderne vivi contro il parere unanime di tutta la comunità scientifica).

Nel documentario d’epoca di Leo Dickinson Everest Unmasked (visibile su youtube) si vedono i due scalatori lottare con la paura, tremare come foglie per i dolori lancinanti del mal di montagna, resocontare allucinazioni.

«Mi sentivo esplodere da dentro – ha rievocato Messner in seguito – siamo arrivati in vetta che non stavamo più in piedi, letteralmente strisciando nella neve, senza il fiato nemmeno per parlare».

Sottosopra, il livello zero dell’umanità sul punto più alto della Terra.