Expo è stato l’incubatore di una candidatura a sindaco di Milano (l’ad Giuseppe Sala); la celebrazione del «made in Italy» formato vetrina da esportazione insieme all’immagine vecchiotta e infondata della «Milano capitale morale» (inchieste e arresti rimosse, per il momento); l’introduzione del lavoro gratis dei volontari nel diritto del lavoro italiano. Un caleidoscopio della post-modernità truffaldina, vecchio di vent’anni, che avrebbe potuto essere compreso con strumenti più pertinenti della surreale polemica sugli ingressi alla DisneyLand del «food» di Rho che ha tirato la volata al governo Renzi affamato di rari successi di immagine. O se il movimento dell’opposizione al dispositivo di Expo non si fosse disperso dopo il Primo maggio, diventato il palcoscenico della contro-manifestazione delle spugnette con il corteo «Milano non si tocca».

Gli attivisti di Macao con la cooperativa finlandese «Robin Hood Minor Asset Management» non hanno perso di vista il problema cruciale della kermesse milanese: il suo modello di organizzazione del lavoro nell’economia dell’evento. Dopo averlo contestato, sotto le spoglie di un’organizzazione – la «Rethink Now» – hanno realizzato un’inchiesta sul lavoro intervistando 150 lavoratrici e lavoratori di Expo sulle condizioni del lavoro e la loro visione del futuro. Hanno indossato una divisa e hanno percorso giornalmente il decumano, il cardo, il cluster. Hanno conosciuto centinaia di lavoratori e volontari, raccogliendone le storie che rientreranno in una «Guida pratica di sopravvivenza», un manuale per permettere ai lavoratori «di prepararsi al cambiamento già in atto e andare oltre il paradigma del lavoro stesso».

Dall’inchiesta emerge il profilo interessante di chi lavora nell’economia dell’evento, la forma maggiore in cui si dà oggi la produzione del valore. Nello stato di eccezione creato dal dispositivo Expo (70 mila persone schedate, 700 lavoratori licenziati, tra le polemiche della Cgil e di San Precario), i lavoratori Expo sono per lo più giovani sotto i 30 anni (il 41,3% tra i 18-24 anni, il 29,3% tra i 25-30). Sono stati contrattualizzati a tempo determinato (48%), non hanno un’istruzione elevata (il 57,3% ha il diploma). Tra loro c’è chi ha guadagnato stipendi considerevoli, ma a costo di lavorare fino a 14 ore al giorno. Come nei lavori stagionali.

Incrociando i dati sul numero delle giornate lavorative e quelli sulle ore lavorate al giorno, è emerso che la media della paga oraria è molto bassa: poco più di 4 euro all’ora nette. È il lavoro del futuro: «Dare più valore al lavoro specializzato dei tecnici o degli elettricisti che all’educazione. Il lavoratore perde sempre più potere sulla paga oraria, assestandosi a livelli più bassi». Per gli attivisti e ricercatori questa è l’immagine di un’economia che mobilita ingenti risorse per finanziare le infrastrutture e l’immagine del «grande evento» ma non redistribuisce ricchezza attraverso il salario. L’82% dei lavoratori intende tuttavia basare le proprie entrate economiche sul lavoro salariato, quello che viene pagato sempre meno. La ricerca si sofferma su un «paradosso»: «Le nuove tecnologie rendono obsoleto il lavoro, ma non sappiamo cosa altro fare al di là di lavorare».

***Il video: Let’s ban the robots***