Nell’immaginario sono gli esponenti di spicco della «giovane scuola romana». Ma Niccolò Fabi, Max Gazzè e Daniele Silvestri sono ormai da vent’anni sulla scena, autori di canzoni in qualche modo entrati nel canzoniere popolare di almeno un paio di generazioni. Gran senso dell’(auto) ironia, la capacità di modulare parole e generi, arrangiamenti e collaborazioni, li hanno sempre accomunati. Amici di lungo corso, tanto che questa decisione di unire le forze, licenziare un disco – Il padrone della festa (Sony/Universal) in uscita il 16 settembre, preparare un tour insieme che il 26 settembre parte da Colonia e tocca diverse capitali europee prima di approdare in Italia il 14 novembre da Rimini, non sorprende più di tanto. Era nell’aria: «Tre anni fa – ricorda Silvestri – avevano già provato in trio come resident band in uno show di Serena Dandini. In tanti ci hanno spinto a metterci insieme, ma noi l’abbiamo fatto con i nostri tempi».

Disco dai suoni caldi, curatissimo: «In sala -ricorda Gazzè – abbiamo utilizzato tantissimi strumenti. E abbiamo voluto sperimentare anche con strumenti decisamente vintage, come i microfoni dei Pink Floyd, il preamplificatore utilizzato dai Beatles e un telefunken».
Un album corale, dodici canzoni suonate anche con l’aiuto di colleghi come Paolo Fresu (un grande assolo su uno dei pezzi migliori del disco, Canzone di Anna, composta e interpretata dal solo Fabi), Piero Monterisi, Roberto Angelini, Fabio Rondanini dei Calibro 35. Lo definiscono «anacronistico» perché in tempi in cui il mercato privilegia il supporto – che sia mp3, smarthpone o iPad – al contenuto, realizzare un disco sta diventando un’operazione coraggiosa.

«Di supporto – risponde Silvestri – stiamo parlando da vent’anni. Forse tutti, noi artisti compresi, abbiamo compreso tardi l’importanza di questa trasformazione. Noi non abbiamo preclusioni e ci confrontiamo con i tempi. Però non abbandoniamo il passato, abbiamo anche realizzato un versione in vinile…». Il viaggio è al centro del disco, anzi in qualche modo è stata la spinta decisiva per la realizzazione del progetto. A gennaio hanno deciso di partire per il Sudan, prima dello scoppio della rivoluzione: «Avevamo bisogno – spiegano – di azzerare tutto, di recuperare un rapporto che andasse al di là del mestiere. Siamo stati insieme prima di comporre e abbiamo condiviso vari momenti; il viaggio in particolare e poi andare a cena insieme, e vedere un film».

E il senso di questa «vacanza» è tra le righe di una delle tracce più intime del disco Il dio delle piccole cose che: «con un sacco sgualcito dal tempo ed un piccolo inchino chissà se ci ridà indietro le vite che abbiamo sospeso…». Rivendicano ancora il senso anacronistico di incidere un disco nei tempi dei nativi digitali: «Perché – interviene Silvestri – è un lavoro che abbiamo fatto a un età in cui è più difficile rimettersi in gioco. Non dal punto di vista umano, ci conoscevamo e sapevamo che ci saremmo trovati bene. Però un conto incontrarsi a 18 e 20 anni, e farlo intorno ai 50. Abbiamo sospeso le nostre carriere per un anno intero, cancellato impegni già presi. Non è stato facile uscire dalla routine di metodi di composizione collaudati, accettare il confronto, cambiare anche uno stile. Ecco, da questo punto di vista la riteniamo una scommessa vinta». «Io personalmente – aggiunge Silvestri – esco da questa scommessa molto più ricco, e per molti versi più giovane, anche se non si vede (ride, ndr). Nel senso che ho ritrovato energie, stimoli e imparato delle cose».

«L’importante – chiosa Fabi – è che ci siamo messi insieme non con l’idea di fare l’album più bello della nostra carriera, perché avremmo perso la partita. Invece difendo il principio che ci unisce, quello di tre persone che potrebbero tranquillamente riposarsi ma che provano a tentare nuove strade. Una rotta che abbiamo tenuto con una certa dignità. Mai ripetere le stesse cose lo ritengo un messaggio positivo».