Ora che Prince e Stevie Wonder si sono ridotti a fare concertini privati nel tinello della Casa bianca, non ci resta che D’Angelo. Imparentato musicalmente più con il primo, scomparso all’ultimo momento dalla lista degli ospiti del suo ultimo lavoro, ma associato volentieri al secondo per la qualità evergreen delle sue canzoni. Oltre che a Sly Stone per le proprietà incendiarie del suo funk, a Marvin Gaye e Curtis Mayfield per il falsetto fulminante e la coscienza critica, a tutte le creature di George Clinton per quella visione cosmogonica della so called Grande Musica Nera.

Dii Angelo, cantante, polistrumentista, compositore nato a Richmond 41 anni fa, parrebbe non essersi inventato niente di nuovo. Ma se è così lo ha fatto in modo geniale, trasudando passione per la musica eseguita a mani nude e a vista, con dosi ragionate di pose sexy e proclami politici, di abiti spacconi e istanze sociali. Musica fisica, granulare, armonicamente intricata e ritmicamente implacabile, sensualmente eversiva.

dangelo-arrested

In questi giorni D’Angelo porta in Europa la band, lo spirito, i tempi dilatati e le improvvise accelerazioni da cui nasce un disco come Black Messiah. Black Messiah? Disambiguare, prego: «È un grande titolo – spiega nelle note di copertina – ma è anche facile da fraintendere. Molti penseranno che parli di religione. Altri giungeranno alla conclusione che sia io a considerarmi un messia nero. Per me il titolo parla di noi. Del mondo intero. Di un ideale a cui ognuno possa ispirarsi. Dovremmo tutti aspirare a essere un messia nero. Parla della gente che è insorta a Ferguson e in Egitto, di Occupy Wall Street, e in generale di una comunità che non ne può più e decide di cambiare le cose, ovunque si trovi. (…) Il Black Messiah non è un leader, un uomo in particolare. È la sensazione che, collettivamente, siamo tutti quel leader».

Colpisce lo snodarsi non proprio ortodosso della sua produzione: l’esordo nel 1995 con Brown Sugar, poi passano cinque anni per l’elettrizzante, premiatissimo Voodoo. Lui anziché battere il ferro caldo si perde in quasi 15 anni più o meno sabbatici, pregni di riflessione e squarciati da rapidi flash di cronaca: un arresto qui, uno lì, tanta ebbrezza fuorilegge e un giallo discretamente infamante che racconta del tentativo di abbordare una poliziotta scambiata per prostituta.

 

Black Messiah, programmato per la prima metà del 2015, esce in fretta e furia nel dicembre 2014 complici i fatti di Ferguson, ovvero la moltitudine di piccoli messia neri esasperati a forza di morire disarmati sotto i colpi della polizia razzista. Un disco come questo, che richiama l’impeto mobilitante di There’s a Riot Goin’ On di Sly & The Family Stone, ha bisogno di battere il suo tempo in sincronia con quello delle strade. L’America Oggi che inchioda D’Angelo sulle annose questioni della violenza poliziesca e il perdurante apartheid economico che intere comunità continuano a subire. Il divo del nu-soul, che come i grandi di quello vecchio ha avuto il suo battesimo del successo nel più classico e pretelevisivo dei talent show, l’Apollo Theatre, non può ancora permettersi di cambiare discorso.

D’Angelo & the Vanguard saranno lunedì 6 luglio alla cavea dell’Auditorium di Roma e il giorno successivo al Market Sound di Milano