«Perché non organizzare un festival sul mare? Facciamo un palco sulla spiaggia e vedrai che choc!»: questa era l’idea che Simone Carella aveva proposto a Ulisse Benedetti e a uno scettico Franco Cordelli che «non credeva al mare. Non credeva al gigantismo. Detestava l’estetica dello choc, così avanguardistica…». Eppure a Castelporziano, nel 1979, non solo il Festival internazionale dei poeti si fece, ma diventò per Cordelli «una cotta» improvvisa, anzi, «peggio che la cotta per una donna. Peggio di un amore. Non riusciva a pensare ad altro». Un mito tra i più resistenti, sia per chi c’è stato, di fronte o in mezzo al pubblico, sia per chi ha saputo da altri. Mito e chiave di volta, apice e chiusura di una stagione di letture e performance di poeti iniziata nella cantina romana Beat 72 due anni prima, in «quell’anno meraviglioso, il 1977», ma già preparata da un gesto aurorale di Berardinelli e Cordelli che nel 1975 avevano stilato Il pubblico della poesia, ben più di un volume antologico: sensore culturale, cartina di tornasole, sintagma fortunato e concetto urticante, catalizzatore di sospetti e di ironie anche a lungo termine. Si pensi alla annunciata piccola lode al pubblico della poesia che Nanni Balestrini fa recitare alla signorina Richmond, ormai consapevole, a metà degli Ottanta, che «il pubblico della poesia ama la poesia / perché vuole essere amato vuole essere amato / perché si ama profondamente e vuole essere rassicurato / del suo profondo amore per se stesso».
L’akmé, la Spannung delle letture poetiche che, complice il romano teatro underground, avevano portato in scena voce e corpo dei poeti, fu Castelporziano: occasione che vide crescere il suo pubblico di sera in sera, fino ai trentamila della terza serata, quando «Evtušenko e Ginsberg difendevano l’onore dei poeti» mentre si schieravano «da una parte quelli della caciara, dall’altra quello dello spettacolo», come disse una «poetessa inquieta». Dopo più di trent’anni – trentatré per essere esatti e scomodare un numero evocativo –, torna in libreria Proprietà perduta di Franco Cordelli, il più denso e ravvicinato, e al contempo critico, disincantato, lucido, e tuttavia auratico, resoconto di quelle tre giornate sul litorale di Roma, 28-30 giugno 1979. Scritto a ritmi forsennati nel mese in cui si allestiva la seconda edizione del Festival – ripetizione impossibile, «metafora di un tempo di stallo» – in Piazza di Siena, il libro era apparso per Guanda nel 1983; L’orma lo ripubblica adesso tra i «fuoriformato» (pp. 262, € 24,00) diretti da Andrea Cortellessa che firma anche il partecipe intervento critico in chiusa, «La bella estate dei poeti».
Di quell’impressionante performance collettiva nella quale il pubblico aveva strappato palco e microfono a presentatore e poeti per esporsi, aggredire, protestare e chiedere cosa è poesia, e dire la propria pontificando o balbettando, Proprietà perduta è il singolare diario non-diario, e rapinoso romanzo – «romanzo con i poeti» – come Cordelli definisce anche Il poeta postumo, che nel ’78, per Lerici, raccontava l’annata al Beat 72 (nei «fuoriformato» prima serie, Le Lettere, 2008). Il racconto è sgranato e centratissimo, vertiginoso e polifonico. La forma è frammentaria, sapienziale o ironica – sempre acuminata – nelle titolazioni dei paragrafi. Le annotazioni caustiche, le descrizioni talvolta struggenti (si veda quella del palco vuoto), capaci di indurre in malinconia come il Maligno sa indurre in tentazione. Lo snobismo è pari all’adesione, la passione di allora all’indifferenza di oggi. Alla distanza da «un remoto mondo». E se è vero che è «ingombrante» come sono tutte le cronache, così dice nel Poeta postumo, è pur vero che crea dipendenza per le note fulminee: la Rosselli «lilialmente e flebilmente svaporante in un abitino nero», l’«italiano innamorato, Antonio Porta», «Katmandu e Marienbad» lì per un po’ «gomito a gomito», «il poeta crociato è anche il poeta crocefisso (da Baudelaire a Castelporziano)». Di là dagli esatti colpi di sferza, però, in questa grande (e storicizzata) macchina teatralizzante, celebrativa e insieme sacrificale, uno è il punto che ancora oggi vince il lettore, una e spietata la moralità: «se si è smesso di credere in Prometeo, se non si è più lui, non c’è salvezza in Narciso».