Sono trascorsi trentacinque anni dalla mostra di Henri Fantin-Latour curata da Michel Hoog al Grand Palais di Parigi. 1982: si era nel pieno della stagione ‘revisionista’ che intendeva ridisegnare la scala dei valori attraverso un nuovo apprezzamento dell’arte accademica dell’Ottocento, la quale aveva patito l’egemonia, fin schiacciante, di un discrimine di qualità fondato sul naturalismo. I pompier cominciavano a uscire dagli scantinati e di lì a qualche anno (1986) avrebbero trionfato nel neonato Musée d’Orsay, a discapito degli impressionisti, spediti in soffitta. In quel momento una figura elusiva come Fantin-Latour tornava bene, per l’equilibrio perfetto da lui rappresentato di istanze beaux-arts e desiderio di modernità. Fantin, ricordiamolo subito, prese parte, nel 1863, al Salon des Refusés partecipando in spirito alla novità manettiana, che poi celebrerà, 1870, nel ritratto di gruppo Un atelier aux Batignolles; ma, pur presente nelle riunioni del cafè Guerbois, all’avventura impressionista non partecipò, preferiva coltivare se stesso nell’appartamento-studio senza finestre sulla rive gauche, dal quale, a un tiro di schioppo, poteva raggiungere il Louvre e gli amati ‘antichi maestri’ (Veronese su tutti, non si contano le sue copie dalle Nozze di Canaa).
Apprezzato da van Gogh
Oggi che la revanche pro-Accademia sembra avere lasciato il campo a un giudizio più posato e meno ideologico possiamo apprezzare Fantin-Latour nelle sue qualità specifiche, con l’ausilio della mostra che a lui dedica, sotto la direzione di Laure Dalon , il Musée du Luxembourg: Fantin-Latour. À fleur de peau (fino al 12 febbraio, dal 18 marzo al 18 giugno al Musée de Grenoble, patria del pittore; catalogo edito dalla Réunion des musées nationaux, euro 35,00). Può sembrare incredibile che, prima di Proust, la visione certa, nella sua argentea opacità, e la pulizia di dettato di Fantin fossero apprezzate, come testimonia una lettera a Émile Bernard del dicembre 1887 (circa), dal barbaro van Gogh: «ecco uno che non si è ribellato, eppure quel non so che di pacato e di esatto che possiede gli impedisce forse di essere una delle figure più indipendenti che ci siano?».
Giusto, indipendente: un costume mentale al quale non sarà stata estranea la formazione, a partire dal 1851, presso Horace Lecoq de Boisbaudran, artista pedagogo, animo liberale, che teneva i suoi corsi al di fuori dell’École, imperniandoli intorno a un metodo fondato sulla memoria pittorica. Ma, quanto a indipendenza, la spia più sintomatica è che l’adesione sentimentale di Fantin, da giovanissimo, alla battaglia per il realismo condotta da Courbet non abbia poi avuto, come effetto, una ‘maniera’ del realismo: forse comprese anzitempo che il maestro di Ornans non rompeva veramente con la tradizione e che portare un toro come modello in atelier – successe nello studio aperto in rue Notre-Dame-des-Champs, dove Courbet, all’inizio del 1862, consumò in pochi mesi le sue ambizioni didattiche, tra gli allievi Fantin – corrispondeva, in fondo, a una forma della tradizione. Come Whistler, amico di una vita, Fantin non si fece mangiare da Courbet, lo distillò entro il suo ordinato mondo iperbarico (che a Xavier Rey, in apertura di catalogo, ricorda il danese Hammershøi), ne conservò gelosamente, nella stagione del plein air, il gusto per gli scuri, e quello – che da potente in lui diviene tenero e sognante – per l’icasticità dell’immagine.
La mostra parigina invita a considerare l’opera di Fantin-Latour nella ricchezza delle sue opzioni e possibilità. Realista, egli risulta oggi più interessante dove scarta dal realismo, sia indietro sia in avanti. Indietro, riallacciandosi, con nostalgia velata, ai grandi modelli romantici; in avanti, sintonizzandosi (alternativa netta ai propri principi naturalisti) con il côté simbolista. Mentre le celebrate nature morte, per le quali l’artista ha impegnato al massimo grado il suo genio mimetico, sembrano contraddire, in alcuni esemplari, il loro modello di riferimento, Chardin, tanto sono tirate a lucido, certosine nella composizione e distribuzione dei toni, gelate atmosfericamente. «Voilà une idée qui me préoccupe beaucoup, faire croire à aucun effet artistique» (Fantin in una lettera del gennaio 1874): ma dinanzi ai suoi fiori, difficile non credere a un effetto artistico, soprattutto se li si affianca, come da manuale, ai fiori di Manet.
Il lascito romantico si esprime nei ritratti di gruppo del periodo giovanile-maturo – esemplati sul modulo del Seicento olandese (Rembrandt, Hals) –, dove circola ancora, sotto la vibrazione dei grigi e dei neri, un ardore napoleonico, un po’ come nel giovane Courbet. Lo spettatore deve essere ammirato, e lo è. Il coinvolgimento è favorito da un modo di disporre non proprio ortodosso, perché i rapporti di spazio e di proporzione sono giocati in funzione della distribuzione degli accenti sentimentali. A essere rappresentati sono gli eroi della modernità. Nell’Hommage à Delacroix, dipinto in mortem nel 1864, il padre storico del romanticismo pittorico sembra voler passare il testimone alla generazione di Fantin, di Whistler e di Manet, che spiccano fra gli altri astanti (defilato a destra, Baudelaire). Del 1870 è, si è detto, Un atelier aux Batignolles, dove intorno a Manet che dipinge fanno cerchio, fra gli altri, Renoir, Zola, Bazille e Monet; manca curiosamente Pissarro: forse perché voleva bruciare il Louvre? Neanche Fantin vi compare, «come se si rendesse conto che il suo posto non era più tra loro», ha scritto John Rewald, lo storico dell’impressionismo. L’ultimo capolavoro di questo genere (tutti e tre sono conservati al musée d’Orsay) è Coin de table, del 1872, dove la parte «napoleonica» spetta al giovanissimo Rimbaud in veste di pensatore.
Negli autoritratti della prima stagione, presentata in mostra sotto la sigla «Esperance et courage», Fantin si ritrae anch’egli come un artista un po’ dandy, che sfida, con un certo piglio, il presente. Ma la sua cifra è il riposo, e un quadro riposato come Les Deux Soeurs, del 1859, scandalizzò la giuria del Salon solo perché non sacrificava, secondo convenienza, al diktat lineare propugnato da Ingres: quadro intimista, quasi contemporaneo della Famiglia Bellelli di Degas, che sembra averlo ispirato.
Le féeries con Watteau
La parte finale della mostra è dedicata alle féeries con le quali Fantin si fa spalleggiatore del simbolismo, sin dagli anni sessanta dell’Ottocento. Esse rappresentano, nella sua produzione, una sorta di controcanto onirico, una riserva cui attingere per tenere desta la fantasia a fronte del severo esercizio sulla realtà chiesto da ritratti e nature morte. A volte modellate su nudi fotografici (la fotografia fu per Fantin una sfida di metodo), Veneri, Arianne, Ninfe galleggiano in una specie di pulviscolo luminoso, che di Courbet e di Manet non serba neanche il lontano ricordo e che si nutre, invece, dell’adorata pittura veneziana: la quale è però sottoposta a una specie di macerazione tonale, che la distanzia malinconicamente, secondo le ricette e di Watteau e di Prud’hon.
Questo venezianismo al quadrato si intreccia alla musicomania: «schumaniste» (così lo appellava Champfleury), Fantin-Latour ha saccheggiato per le sue opere i poemi sinfonici di Berlioz, Brahms, Schumann, Wagner. Come quel paesaggista personaggio dell’Oeuvre di Zola, egli, guardando la notte, pensa alla musica mentre gli altri parlano di pittura. O meglio, in linea con le più avanzate esperienze simboliste, vuole trovare corrispondenze visive ai flussi sonori, e le screziature, scie, alonature di colore rese possibili dal ‘ricercare’ sulla tavolozza veneziana sembrano la forma più appropriata in questa direzione: una direzione eminentemente lirica. Ma l’amore per la musica lo riversa soprattutto nelle litografie, che a volte replicano i soggetti dei quadri (Wagner la fa da padrone). Il bianco e nero vellutato, pieno di contrasti luminosi, di gore di luce, fa fantasticare, ha scritto Claude Roger-Marx, su quel che ci avrebbe potuto dare un Seurat litografo. Per dire, di nuovo, la modernità di Fantin