Dopo David Cameron e Boris Johnson è ora il momento Nigel Farage. Il leader dell’Ukip (e suo co-fondatore vent’anni fa, con Alan Sked) è l’ultimo leader referendario ad aver dato le dimissioni – annunciate a sorpresa ieri – lasciando il terzo partito senza un leader ufficiale in una politica britannica in pieno disturbo post-traumatico da stress. I più entusiasti propugnatori del referendum sull’uscita del paese dall’Ue mollano sul più bello.

Ora che l’obiettivo è raggiunto, Nigel, il deputato europeo che ha vinto una campagna referendaria convincendo la working class negletta dal Labour party di voler «difendere la gente comune dall’establishment» rivuole indietro la sua vita privata. Così ha motivato la sua scelta. E visto il patema e le divisioni con cui ci si accinge a gestire il famigerato – né mai applicato prima – articolo 50 sull’uscita dall’Ue, una delle questioni dirimenti nell’elezione del futuro leader conservatore, forse non sorprende nemmeno tanto che questo outsider, che non è nemmeno deputato, abbia deciso di concedersi una vacanza dopo aver portato il paese dove voleva lui.

La sua gestione padronale dello Ukip ha creato non pochi dissapori interni, in particolare con l’unico deputato che il maggioritario abbia consentito a una formazione politica che aveva comunque preso 4 milioni di voti alle ultime politiche: l’ex conservatore Douglas Carswell, che ha festosamente accolto la notizia delle dimissioni di Farage su Twitter ma ha anche escluso di volersi candidare a succedergli. E comunque non credetegli: Nigel ha già dato le dimissioni due volte.

Sul fronte Tory è stato ieri il momento della candidata Andrea Leadsom, che ha presentato il proprio manifesto per guidare il partito e il paese.

Pur non essendo nota come Theresa May, favorita alla leadership dopo che Michael Gove ha bruciato le ambizioni di Boris Johnson, il ministro per l’energia ha dalla sua l’aver fatto campagna per il leave accanto ai succitati Johnson e Gove, e questo potrebbe esserle di vantaggio in un partito che di solito sceglie i suoi leader il più euroscettici possibile. A proposito dello status dei tre milioni di cittadini Ue presenti nel paese all’attuarsi dell’articolo 50, se eletta leader May li userà come contrappeso nella negoziazione di quello dei cittadini britannici che vivono nell’Ue.

I Tories hanno poi rivelato che il millantato programma di pareggio di bilancio, che ha inflitto tagli dolorosi allo stato sociale e al settore pubblico, sarà abbandonato, come ha ammesso il cancelliere Osborne. Non perché fosse irrealistico portare in nero le finanze del governo entro il 2020 (doveva essere il 2015), come aveva promesso, ma per via del colpo all’economia recato dal Brexit, che almeno a qualcosa di utile serve.

È il postumo colpo di grazia al manifesto con cui Cameron ha vinto due elezioni, la seconda con una maggioranza assoluta. Il Partito Laburista prosegue invece imperterrito nella sua jeremiade, anziché approfittare delle divisioni nel partito che ha causato questo tumulto. Il golpe messo precipitosamente a segno dai deputati contro la leadership di Jeremy Corbyn sembra vacillare dopo un weekend di stasi. Il risoluto Corbyn ha incassato per ora il temporeggiamento di Angela Eagle, suo ex-ministro ombra che ha posticipato la presentazione della sua candidatura e la conferma del prezioso appoggio di Len McCluskey, segretario di Unite the Union, il maggiore sindacato nazionale.

Intanto, dalle colonne del quotidiano scozzese The Herald, l’ex-leader dello Scottish National Party Alex Salmond sostiene che il colpo anti-Corbyn dei deputati sia stato probabilmente sferrato per mettere al riparo Tony Blair dal rischio di vedere il leader del suo stesso partito unirsi a coloro che lo vogliono sotto processo per l’illegale invasione dell’Iraq. La Chilcot Inquiry, il rapporto-fiume in materia annunciato nel 2009, sarà pubblicato mercoledì. Salmond ha detto che Blair potrebbe essere processato in Scozia, giacché non lo sarebbe in Inghilterra. Anche a questo, forse, si deve l’attendismo di Eagle.