Affascinante e appieno indovinato esporre a incipit dell’ultima mostra del progetto «Stanze del Vetro» alla Fondazione Cini, i vetri di Carlo Scarpa, Tomaso Buzzi, Fulvio Bianconi, Napoleone Martinuzzi. Subito si comprende l’importanza del protagonista e «artifice» della loro produzione: Paolo Venini, con i suoi abilissimi artigiani. La mostra, Paolo Venini e la sua fornace (fino all’8 gennaio), rappresenta il tassello mancante dell’iniziativa congiunta della Fondazione veneziana e della svizzera Pentagram Stiftung. Infatti, non era possibile fermarsi all’indagine della creazione artistica degli autori sopra ricordati, che pure ci ha consegnato nell’arco di un quinquennio, per ognuno di loro, esemplari monografie con un’accurata catalogazione degli oggetti, senza l’approfondimento che si doveva al loro specialissimo committente, appunto Venini.
Le parole di Bontempelli
Pasquale Gagliardi, a premessa del catalogo (Skira), ha persino coniato la categoria di «veninità»: termine che spiega l’«insieme di forme e contenuti che distinguono in modo inconfondibile non solo i prodotti ma anche l’identità culturale dell’azienda». Tuttavia, senza scomodare «categorie dello spirito», più semplicemente basta quanto Massimo Bontempelli disse in merito alla relazione tra arte e mestiere, e si capirebbe il ruolo che nel design sempre svolge il committente, a volte, come nel nostro caso, anche esecutore. Nell’icastica affermazione che «l’arte non si insegna. Ma si insegna il mestiere» si cela, infatti, il significato autentico dell’impegno di Venini. «Il mestiere, punto di partenza dell’arte è tale per pochi – scriveva il critico e scrittore comasco – mentre per molti è il punto d’arrivo». «Tutta la storia di un’arte – proseguiva – è storia d’una grande schiera di mestieranti dalla quale s’alza isolato qualche poeta». Si deve, quindi, a quella schiera di «mestieranti» se vi è «continuità storica» di una manifattura quanto di uno stile.
Venini ha rappresentato dalla parte dell’arte vetraria muranese questo svolgimento nelle sue espressioni più nobili e «un nome che resta – come scrisse il suo amico Ponti -– alla pari di un Lobmayer a Vienna». Si potrà poi considerare curioso che questo primato l’abbia conseguito un laureato in giurisprudenza, nato a Cusano Milanino (1895) e proveniente da una famiglia borghese che non si era mai occupata di vetreria. L’incontro fatale che cambierà il destino professionale di Venini è quello con il veneziano Giacomo Cappellin, antiquario a Milano che lo coinvolge nell’apertura nel 1921 di una fornace a Murano: la Vetri Soffiati Muranesi Cappellin Venini & C.. Tre anni dopo, per avvenute divergenze, i due soci si separano, e l’avvocato milanese fonda con i muranesi Napoleone Martinuzzi, scultore, e Francesco Zecchin, ingegnere, la vetreria V.S.M. Venini & C., che manterrà, con alterne vicende, fino alla sua morte nel 1959.
Marino Barovier, curatore con Carla Sonego della mostra, narra con precisione la nascita e l’espandersi della vetreria, fino alla sua egemonia commerciale nell’arte vetraria muranese, che negli anni cinquanta conquista il ricco mercato americano (interessante il contributo di Howard J.Lockwood). Dicevamo degli artigiani: la fortuna della fornace coincide con l’ingresso sul suo nascere del giovane Arturo Biasutto, detto Boboli, il più valente degli otto maestri assunti da Venini, poi c’è l’arrivo negli anni trenta di Buzzi, con l’incarico di direttore artistico, il quale risolleva le sorti dell’azienda dopo la crisi del ’29, e si prosegue con Scarpa, il più duraturo e influente artista della vetreria, che tra il 1932 e il 1947 rinnova in profondità la produzione veniniana. In parallelo si collocano le presenze della ceramista svedese Tyra Lundgren, che con i suoi volatili, pesci, serpenti e foglie in pasta vitrea in tessitura rigata o trasparente iridata rappresentarono una vera novità nella XXI Biennale (1938). Dopo la guerra, la Lundgren ritornò in Laguna con le sue poetiche creazioni nonostante la fornace si fosse orientata in parallelo, per riprendersi dai difficili anni bellici, verso la produzione industriale di bulbi per lampadine o di flaconi per profumi. È da questi speciali contenitori che passa, ad esempio, il debutto di Bianconi nel vetro decorativo. Su invito di Venini l’artista vi approda con le sue figurine coloratissime della commedia dell’arte, ma soprattutto con il suo celebre vaso Fazzoletto (1949-50), «icona della vetraria muranese» come ricorda Barovier.
Le lampade sospese
Accennavamo alla diversificazione produttiva della fornace veniniana verso gli altri «settori moderni» di applicazione delle arti vetrarie, in parallelo alle creazioni rivolte agli ambienti domestici. In mostra, al di là delle sue traslucide pareti vitree (Vetrate, 1957-59) che alla XI Triennale riscossero un prevedibile successo, non è possibile apprezzarne altri esempi. Occorre però ricordare che i corpi illuminanti, tra plafoniere e lampade sospese, dell’azienda veneziana hanno qualificato da un punto di vista estetico e tecnico spazi pubblici come stadi (Stadio Mussolini di Torino, 1932-33), negozi o ristoranti (Negozio Novum, 1934, Palazzo della Borsa, 1932, di Milano). A forma tubolare, in vetro «ondulato semismerigliato» o «a canne cordonato», i sistemi di illuminazione Venini degli anni trenta sono ancora visibili nonostante l’incuria, ad esempio, in diverse stazioni o uffici postali di Angiolo Mazzoni. Il contributo in catalogo della Sonago tratta diffusamente dell’argomento e bene illustra le costanti presenze di Venini nelle esposizioni d’arte e di architettura veneziane e milanesi, confermando il valore di sostegno della sua fornace agli artisti e architetti della modernità per quella che Ponti chiamò «la prodigiosa resurrezione moderna delle arti applicate italiane».
Anche nel periodo della Ricostruzione l’avvocato milanese non perde di vista l’illuminazione di serie, come dimostra l’episodio, nel 1954, della scelta di Franco Albini di distribuire per l’Auditorium della Triennale «lampade sospese entro campane di vetro color turchese», le quali poi saranno inserite in catalogo e altre se ne aggiungeranno grazie anche all’apporto di Massimo Vignelli. La mostra, come sempre impeccabile nell’allestimento, evidenzia quanto è stato rilevante il contributo di Venini nei vetri degli artisti che lo hanno preceduto nelle «Stanze del Vetro»: lui che non sapeva neanche disegnare. In poco più di un trentennio in Laguna ha avuto sviluppo una «saga aziendale» che coinvolse parenti (il genero di Venini è Ludovico Diaz de Santillana, che sarà il suo successore), esperti maestri vetrai e un gruppo scelto di artisti. In mostra il significato di questa coralità di invenzioni e sperimentazioni, tra il recupero delle antiche tecniche e nuove ricerche, è reso in maniera netta. Ecco, quindi, Tobia Scarpa e Vignelli, con i loro servizi da tavola, Grete Korsmo e le sue collane, Charles Lin Tissot con le sue bottiglie, le coppe, i vasi, proseguendo con le murrine di Riccardo Licata, i centrotavola di Eugène Berman, i pesci di Ken Scott, i vasi a forma di corno di Piero Fornasetti, e i lampadari, le bottiglie antropomorfe di Ponti. Come nel percorso dentro un «labirinto» – così agli esordi di Venini si chiamò il gruppo formato con Ponti, Buzzi e altri – è facile smarrirsi davanti a una così multiforme e ricca varietà di vetri. È anche questo la «magica arte di creare bolle» (Tyra Lundgren).