La voce di Franco Maresco arriva attraverso il telefono, pacata, un filo di stanchezza, lampi di sagace umorismo, lo stesso che punteggia il suo Belluscone – Una storia siciliana, nelle sale questi giorni, dove potrà rimanere solo grazie agli spettatori,a quel passaparola indispensabile per un film indipendente che oggi sembra divenuto impossibile. «Non esiste più la vecchia modalità distributiva, e dell’esercizio; le sale vengono incalzate a ritmi assurdi, i titoli cambiano vertiginosamente. Non uscivo con un mio film da dieci anni, (dai tempi di Come inguiammo il cinema italiano. La vera storia di Franco e Ciccio, ndr) in questo arco di tempo c’è stato un cambiamento epocale. Siamo in un altro mondo nel quale il cinema a livello di circuitazione è destinato a sparire. Le sale chiudono, e nei prossimi cinque anni saranno sparite quasi tutte, lasciando il posto a diverse tipologie di fruizione».
Eppure Belluscone è stato uno degli eventi dell’ultima Mostra del cinema di Venezia, adorato anche dalla stampa internazionale, e dal pubblico – i risultati sono finora buoni nonostante la mancanza di pubblicità, trailer e quant’altro con cui fa i conti una piccola distribuzione, la coraggiosa Parthénos. Per tanti è stato anche il ritorno di Franco Maresco, perché il film precedente, Io sono Tony Scott, in sala non è mai arrivato. Era, anzi è, un film bellissimo, struggente ritratto del grande jazzista amato dal regista che diveniva un racconto per affinità quasi alla prima persona, di uno stare al mondo e di una scelta artistica. Ma anche uno specchio del nostro Paese, di quel suo essere intimamente annientato, che davanti alle sue macerie preferisce distogliere gli occhi. Lo stesso sentimento che attraversa questo film, pungente racconto del ventennio (e oltre) berlusconiano e delle sue mutazioni antropologiche che arrivano fino al presente. Senza teorie del complotto o «trame» della politica, per questo straordinariamente politico e denso di una verità dove tra risata e spavento tutto si confonde.

Cominciamo da una curiosità: non sei venuto al Lido col film, una scelta che considerando cosa rappresenta in termini mediatici il Festival di Venezia può sembrare eccentrica.

Tanti mi hanno rimproverato per questo, ma dopo un anno molto faticoso, col film, la regia a teatro di Lucio, la sola idea di trovarmi tra motoscafi e selfie mi atterriva. Credo che mi sarei gettato nella Laguna un minuto dopo, sarei diventato un Tenco in versione cinematografica! E francamente non me la sento nemmeno di andare in giro per l’Italia a fare presentazioni. È vero, rispetto all’evento mediatico che si è prodotto al Festival forse noi tutti ci aspettavamo di più nonostante chi è esperto di diavolerie tipo media copie e quant’altro mi dice che il film si è difeso bene. C’è a considerare la stagione ancora estiva, il fatto che la nostra è una piccola distribuzione nata da poco: sono arrivati all’ultimo e pure noi abbiamo capito tardi che dopo la selezione veneziana il film poteva andare in sala. Perciò abbiamo fatto tutto in fretta, non ci sono stati mesi per pianificare strategie, non siamo riusciti a avere pubblicità. Qui a Palermo il film fa molto discutere e ha raggiunto un pubblico diverso dal mio abituale.

«Belluscone» procede su un doppio binario, da una parte l’indagine sulle fortune siciliane di Berlusconi, e dall’altra la figura di Ciccio Mira, improbabile impresario di neomelodici, che nel corso della storia appare come un tuo alter ego diventando il vero protagonista.

Quella di Ciccio Mira è una maschera straordinaria che arriva dal passato, ed è questa la ragione per cui appare in bianco e nero. Non è certo un modello di «legalità», almeno come la si intende oggi, ma esprime una visione arcaica in cui è ancora presente un’umanità, una ricchezza della vita per quanto, appunto, non esemplare. È questo «lato umano» che mi interessa, l’esperienza di un uomo che arriva da un sud contadino, e si muove in mezzo a questi cantati di piazza molto diversi da lui. Basta guardarli negli occhi e capisci che sono degli ultracorpi il cui sguardo emana scintille solo quando parlano della De Filippi o delle veline. Non è questione di nostalgia, ma in passato c’era una controparte, nella politica coi blocchi ideologici, nella società, si sapeva contro chi si combatteva. Tutto questo oggi non c’è più, e sicuramente era meglio prima, pure se può sembrare un paradosso, perché esistevano le regole del gioco.

19VISISINmascheraBELLUSCONE-UNA-STORIA-SICILIANA-23-Mutolo

In che modo sei arrivato al mondo dei neomelodici? O meglio cosa ti ha portato a pensare che potevano funzionare come un’efficace metafora per narrare gli ultimi vent’anni di Storia italiana, la fascinazione per Berlusconi, i cambiamenti del rapporto tra politica e cittadini?

Ho cominciato questo film nel 2011 pensandolo come una sorta di guerra lampo con cui ricostruire la sicilianità di Berlusconi. Non volevo ripetere quello che era stato fatto altrove, in film come Videocracy, e insieme a Luca Bigazzi (il direttore della fotografia di Belluscone, ndr) avevamo in mente di puntare sulla satira utilizzando pochissime interviste. Dopo alcuni mesi, e dopo l’incontro con Dell’Utri, ho capito che non era quello che volevo fare, che non stavo andando nella direzione giusta perché non c’era dentro la mia anima, quello che piace a me, e correvo il rischio di replicare qualche inchiesta già fatta e pure meglio. Nel frattempo avevo conosciuto Mira, era l’impresario di un cantante, Ricciardi, e parlando di Berlusconi gli ho chiesto se c’erano canzoni che lo citavano. Mi ha fatto sentire Vorrei conoscere Berlusconi, perché poi la politica e il mondo dei neomelodici e delle feste di piazza hanno legami piuttosto stretti. Così ho incontrato i cantanti, Ricciardi e Erik che era l’autore della canzone, i due la cantavano insieme ma poi hanno litigato, come si vede nel film, e si sono scagliati contro di me. Da questa negatività è nata la struttura attuale del film. Nel frattempo però erano finiti i soldi, la lavorazione si è bloccata, finché non ho incontrato Pietro Marcello (regista de La bocca del lupo, ndr) che guardando il girato mi ha detto:«Sei pazzo a buttare un materiale così». Allora l’ho ripreso in mano, e ho deciso di gettare al mare tutta la parte delle interviste, che alla fine erano molte, avevo incontrato Gomez, Ingroia, Bolzoni. Ma il mio nocciolo era lì, in Ciccio Mira. A questo punto ha preso forma l’elemento narrativo, la deriva del film che fallisce perché Maresco è un disadattato ed è inadeguato perciò è sparito, con la figura dell’amico Tatti Sanguineti che arriva a Palermo per cercarmi.

Una delle cose che ho molto amato in «Belluscone» è la capacità di interrogare la Storia dal punto di vista degli italiani. Se Palermo è un laboratorio avanzato ciò che vediamo, fino a Renzi col giubbino di pelle nera da «Amici», riguarda l’intera Italia.

Nei giorni veneziani il mio film è stato spesso paragonato a La trattattiva di Sabina Guzzanti e per ovvi motivi. Non l’ho visto, perciò non posso dire nulla, di certo Belluscone non è un film sulla trattativa stato-mafia anche se ne parla. La mia impressione è che lei abbia in mente la forma del pamphlet, il cinema di denuncia coi dati sul tavolo e gli archivi da cui partire per un ragionamento che, vuoi o non vuoi, porta inevitabilmente a un risultato binario: c’è chi sta da una parte e chi dall’altra. È un lavoro legittimo, e chi dice ’basta ancora Berlusconi’ esprime la cialtroneria tipica di questo Paese che tende a dimenticare. Come ti dicevo però quando il mio film ha preso una direzione di questo tipo mi sono stancato subito. Non ho nulla contro l’inchiesta ma è una soluzione che non mi corrisponde. Non ho delle certezze e la verità mi piace perché non è mai tale, mi piace nel senso in cui la intende Popper, cioè come principio di falsificazione. Nessun uomo è un santo, per questo sono convinto che nel fango si possano trovare verità importantissime, e per questo mi piacciono i perdenti, i criminali, posso trovare qualcosa solo in una discesa all’inferno.

«Belluscone» in questo senso propone una riflessione molto forte sul cinema «di realtà» e, più in generale, sul processo artistico.

Quanto un regista come Francesco Rosi faceva i suoi film la realtà storica in cui si muoveva era molto diversa. Era comunista e aveva un orizzonte. La verità nel mio lavoro è importante, ma noi ci troviamo alla fine della Storia. L’intelligenza artificiale, gli smartphone hanno modificato le capacità cognitiva e, dunque, politica perché diventa inutile fare politica in un mondo ipertrofico. La riflessione sul mezzo, sull’utilità del cinema, diviene ancora più necessaria se pensiamo al magma televisivo che ci circonda in cui tutto ha lo stesso valore. Ti racconto una cosa. Un giorno, nel 2012, abbiamo intervistato Francesco Di Carlo, è stato un testimone importante nella condanna a Dell’Utri, ed è l’ultimo sopravvissuto tra i mafiosi che incontrarono Berlusconi negli anni Settanta. Ero con la mia troupe, tutti ragazzi molto giovani, lui è arrivato, si è messo la maschera e i guanti, è in un programma di protezione, e ha iniziato a parlare. Quando se ne è andato i ragazzi non hanno detto nulla, era come se non ci fosse mai stato. A diciotto anni se avessi incontrato un mafioso non avrei dormito per giorni; era una vertigine, come entrare dentro a Dostoevskj. Per loro era uno tra le centinaia di sms inviati quel giorno, e in fondo non c’era nessuna differenza tra quello e un talk show in tv.

Come ha preso Ciccio Mira il film?

Benissimo, ci ha anche dedicato uno speciale nel suo programma tv che si chiama Cantiamo insieme. Quando nel ’95 uscì Lo zio di Brooklyn io e Ciprì siamo stati attaccati a Palermo per come mostravamo il sud. Ci criticò anche Orlando, che allora era sindaco, pure se poi con la sua intelligenza disse che io e Ciprì rompevamo i coglioni ma eravamo necessari. Oggi nessuno si sognerebbe di intervenire, mentre l’idea diffusa è quello che pensa la moglie di Ciccio, quando c’era la mafia si stava meglio.