Onorevole Fassina, ha deciso: lascerà il Pd. Il ddl scuola è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?

La montagna d’acqua direi. La scuola è il luogo dove la Costituzione vive ogni giorno. Dopo un movimento così ampio, dopo un voto che ha sancito senza più dubbi la rottura del Pd con un pezzo del nostro mondo, la chiusura brutale con la fiducia vuol dire che quello del Pd è un posizionamento irreversibile.

Renzi dice: investo molti soldi, assumo 100mila insegnanti. È solo propaganda?

Abbastanza. Una parte di quelle assunzioni sono dovute al turn over. E comunque non è un mercato, non si barattano le assunzioni o la formazione ai docenti con un modello che mina la libertà di insegnamento e lascia a casa migliaia di precari. La dignità delle persone e la scuola pubblica non possono essere oggetto di scambio.

Per il suo addio al Pd lei ha scelto il Pd di Capanelle, periferia sud-est di Roma, un circolo ’buono’ e tuttavia una location che ha suscitato molta ironia in rete. Perché?

Perché lì ci sono gli uomini e le donne che mi hanno mandato in parlamento, che mi hanno scelto alle primarie per i parlamentari (fu il più votato a Roma con 11.800 voti, ndr), lì ci sono gli interessi che voglio continuare a rappresentare e le persone rispetto alle quali mi sento responsabile.

Con Renzi non vi siete mai presi da quel ’Fassina chi’ per cui si dimise da viceministro. Era una storia già segnata dall’inizio?

No, la scelta è stata segnata dalla svolta liberista sul lavoro, da quella plebiscitaria sulla democrazia, e ora da quella regressiva sulla scuola.

Il presidente Orfini dice che con Napolitano avete preso l’impegno per una legislatura costituente con la destra, per questo lei è diventato viceministro di un governo con Berlusconi, non promesso in campagna elettorale.

Un governo in cui non abbiamo cancellato l’articolo 18 né attuato il modello di scuola azienda. Diciamoci le cose cose stanno: la svolta liberista sul lavoro e sulla scuola non sono state imposte da Alfano: sono scelte volute dal Pd.

Fuori dal Pd la segue solo la collega Gregori. Altri arriveranno poi?

Vedremo. Anche altri oggi pensano che il Pd si è riposizionato, che ha dei limiti di fondo, che Renzi non è un intruso o un usurpatore ma la sua migliore guida. Renzi non ha dirottato un autobus che andava nella direzione giusta: è l’interprete più abile della subalternità culturale e politica della sinistra italiana, sia di matrice comunista sia cattolica, negli ultimi tre decenni. Una subalternità sublimata nella carta d’identità del Pd: un non-partito, regolato dalla democrazia plebiscitaria dello statuto e segnato nei cromosomi dall’europeismo liberista del Lingotto. Renzi non è una parentesi alla quale opporre resistenza interna per riconquistare il Pd delle origini. Renzi è l’essenza del Pd. Ma chi ci conosce lo sa: veniamo da una storia che rende le separazioni molto dolorose anche sul piano personale. Ho rispetto per chi non se la sentirà di uscire.

Lei è stato un protagonista della stagione di Bersani: era in segreteria, era il responsabile economico. Ora dice che Renzi non è un usurpatore ma il miglior interprete del Pd. Vuol dire che lei ha sbagliato partito sin dall’inizio?

Ci siamo illusi che un’interpretazione del Pd, che pure c’era fin dalla nascita, quella di Reichlin e di Scoppola, potesse essere dominante. Abbiamo sbagliato. È stata la segreteria Bersani ad essere un’anomalia, tant’è che non è riuscita a raggiungere gli obiettivi che si era prefissa perché la cultura politica prevalente nel Pd aveva un segno diverso.

Ne ha parlato con Bersani?

Sì. Condivide molti punti di analisi, ma resta convinto che sia ancora possibile recuperare il Pd.

Uno dei fondamentali della cultura dem è il credo nell’euro. Ora lei chiede davvero di uscire dall’euro?

No. Chiedo di guardare in faccia alla realtà. L’euro è insostenibile, lo dico da quando ero viceministro del governo Letta: la rotta mercantilista imposta dalla Germania all’euro-zona porta al naufragio. Le condizioni per una correzione radicale oggi non ci sono, come dimostra la vicenda greca. Accontentarsi, come fa l’Italia di Renzi, di qualche decimo di punto percentuale in più di deficit, vuol dire lasciare campo alle destre nazionaliste. Guardiamo in faccia la realtà: nell’euro-zona non c’è alternativa alla svalutazione del lavoro, al rattrappimento delle classi medie, al collasso della partecipazione democratica.

L’Europa che non le piace non è quella che in fondo sta provando a fare di tutto pur di salvare la Grecia?

Ma non è vero. Intanto chiamiamo le cose con il loro nome: la Germania, con i governi dell’eurozona al seguito, ha fatto di tutto per salvare l’interesse nazionale tedesco e quello dei grandi creditori, delle grandi banche tedesche e francesi innanzitutto. Hanno contrastato in tutti i modi l’espressione democratica del popolo greco. E sono arrivati a una soluzione che in realtà è solo un rinvio: perché il debito greco va ristrutturato e perché le misure approvate, per quanto ridimensionate dalla resistenza di Tsipras, sono recessive. E ci porteranno in pochi mesi di nuovo allo stesso bivio.

Insomma la vostra nuova forza politica non starà nella famiglia socialista ma nella sinistra europea di Tsipras?

Ci faccia prima arrivare a Bruxelles.

A proposito, Tsipras è alle prese con il dissenso interno di Syriza: anche lui ha i suoi Fassina contro cui metterà la fiducia?

Mi identifico in Tsipras, non nei suoi oppositori interni.

Il 4 luglio a Roma lei farà un’assemblea con altri ex democratici. Con Civati e Pastorino darete vita a un nuovo gruppo parlamentare?

Dobbiamo fare una cosa seria. Partire dai territori, dare protagonismo a chi sta nei territori. Innanzitutto, dobbiamo condividere un’analisi, altrimenti si alimenta l’illusione che basta una scissione dal Pd e la riaggregazione di ceto politico spiaggiato per «fare l’alternativa». Oppure, risucchiati dall’anti-politica, si rischia di dare credito alla favola dell’autosufficienza politica della «coalizione sociale». La ricomposizione dei gruppi parlamentari, grazie anche alla generosa disponibilità di Sel, se sarà, dovrà essere un punto di arrivo.

C’è una road map per questa nuova cosa di sinistra?

No, e se ci fosse vorrebbe dire che non facciamo sul serio il lavoro di radicamento territoriale, di raccolta di domande, competenze e passioni. C’è un enorme lavoro da fare. Mi sento molto in sintonia con Sergio Cofferati quando indica come prioritario il terreno della cultura politica. Dobbiamo affrontare due sfide enormi: da un lato viviamo dolorosamente la crisi della famiglia socialista europea, dalla Grecia all’immigrazione gli esempi non potrebbero esser più eclatanti. Dall’altra dobbiamo misurarci con quelle sfide che anche nell’ultima encliclica Papa Francesco ripropone. E che hanno al cuore lo schiacciamento della persona nel capitalismo finanziario nel quale siamo immersi.

Con l’Italicum, in un ballottaggio fra Renzi e Grillo, oggi chi voterebbe?

Punto ad arrivare ad un ballottaggio in cui ci sia la sinistra come protagonista.