Carmelo Bene raccontò Lydia Mancinelli come «una compagna elevata al cubo». Nel Don Giovanni, solo per fare un esempio, il catalogo delle dodici donne sfilanti («dodici in rappresentanza di milletre», come viene detto nell’omonimo racconto di Barbey d’Aubervilly) altro non è che la ripetizione differita di un’unica donna, sempre la stessa, lei. Lei dichiarò che dopo essere stata con lui non volle fare più nulla, perché le sembrava che niente avesse più senso e che lasciarlo fu come perdere un figlio. Parole e dimostrazioni che fanno immaginare un sentimento totale.
In questi giorni Lydia Mancinelli è stata la «musa» dei Mille Occhi, il festival diretto da Sergio M. Germani che ha festeggiato i suoi primi quindici anni con la proiezione dei 691 minuti di rushes (i «giornalieri») di Nostra Signora dei Turchi.

 

 

Lei non è solo un attrice ma testimone vivente dell’universo beniano. È un ruolo difficile da sostenere?
Beh, diciamo che è un ruolo che mi si confà, per cui non è così difficile. Dopo la nostra separazione io ho provato a lavorare: una volta con dei giovanissimi, ; poi, era il 1983, con Gabriele Lavia, dove facevo, con Turi Ferro, la protagonista del Tito Andronico (i miei figli sulla scena erano Sergio Rubini e Giorgio Gobbi). Quello fu davvero il mio primo impatto con una compagnia ufficiale. E fu devastante: non perché Lavia non fosse un bravo regista; ero molto ben accolta, tutto era davvero professionale, però finite le prove generali, dopo la prima, ebbi come la sensazione che la tensione creativa andasse sbriciolandosi e che i colleghi recitassero prima di tutto per il cachet. Mentre con Carmelo era un continuo work in progress, e ogni replica era vissuta come se fosse un debutto. Devo dire che di offerte non ne ho ricevute molte. Del teatro ho potuto fare a meno, però mi sarebbe piaciuto continuare con il cinema e la televisione. Per conto mio feci L’Arlésienne di cui ho curato la traduzione e la regia. Debuttai a Milano, al Verdi, con i Pomeriggi Musicali. Volevo continuare l’esperienza «concertistica» dopo il Manfred che Carmelo diresse nel ’78, lavoro che riascolto quando voglio risentirlo vicino a me: c’è il momento dell’invocazione ad Astarte quando Manfred dice: «Parlami! Parlami! Parlami!» che è quanto di più commovente ci sia.

 

 

 

Quando dice di non aver ricevuto molte offerte, non pensa che da parte degli altri ci fosse una specie d’inibizione, proprio per il fatto d’essere considerata la musa di Carmelo Bene?
Può darsi che ci sia stata una specie di timidezza nei confronti di Bene, e che la gente avvertisse troppo la sua «eredità». Comunque, lo si scriva chiaro e tondo, se qualcuno avesse da offrirmi una parte io la terrò volentieri in considerazione.

 

 

 

Da quello che si legge del vostro sodalizio l’impressione che se ne ricava è che non si smettesse mai di andare in scena, anche nel privato. Penso ad esempio a quello che allestiste per denunciare il mancato riconoscimento, alla Mostra del Cinema di Venezia, del premio di qualità per «Nostra Signora dei Turchi», quando Carmelo si presentò al commissariato di Piazza del Collegio Romano dove voleva costituirsi per un possibile delitto da compiere.
Sì, esatto! Disse: «Arrestatemi perché voglio uccidere il ministro dello spettacolo». Carmelo fece Nostra Signora dei Turchi per vincere quel premio. Realizzammo il film con due milioni di lire. Questi erano i liquidi di cui disponevamo. Facemmo debiti con Giorgio Patara, produttore della Documento Film, che mise a disposizione pellicola e macchina da presa; con Franco Iasiello, di Microstampa, per sviluppare e gonfiare il 16mm in 35mm. Debiti che contavamo di ripagare con la vincita del premio di qualità, perché Carmelo era conscio del valore della propria opera (e rivista proprio qui al Mille Occhi, mantiene inalterata la propria forza espressiva). Malgrado la giuria volesse assegnargli il Leone d’oro (Akira Iwasaki lo sostenne con veemenza), fu dato ad Artisti sotto la tenda del circo: perplessi di Alexander Kluge, per ripagarlo del mancato riconoscimento a La ragazza senza storia. A Carmelo andò il premio speciale della giuria ma non ottenne quello di qualità. Per denunciare tutto questo voleva commettere un delitto. Questa è l’histoire

 

20VISSINCArmelo Bene_Lydia Mancinellida Nostra Signora dei Turchi

 

 

E ribaltando la prospettiva, quindi, quello che creavate si nutriva della vostra relazione? Sempre a riguardo di «Nostra Signora dei Turchi» mi sembra che dichiarò: «Lì dentro c’era la nostra vita: era tutto molto autobiografico…».
Non c’era una differenza tra pubblico e privato. L’immagine inquieta che dava di sé in fondo corrispondeva al vero. Carmelo pensava continuamente. In casa camminava, senza requie, avanti e indietro. Diceva d’essere come i lupi che, secondo lui, pensano perché camminano sempre. Io mi occupavo dell’organizzazione, della logistica, di far funzionare tutti gli ingranaggi della macchina spettacolare. E un po’ collaboravo alla fase creativa. Lui pensava. Eternamente concentrato sul proprio lavoro.

 

 

 

Si dice che le sessioni di lavoro non contemplassero interruzioni.
Erano davvero molto molto lunghe. Le prove degli spettacoli teatrali, soprattutto quelle di illuminotecnica, potevano durare anche tre giorni ininterrotti. Poi la mattina della prima Carmelo andava a dormire per risvegliarsi a poche ore dal debutto. Io invece dovevo controllare che tutto fosse pronto per andare in scena. Ritmi di lavoro che a un certo punto il mio corpo non fu più in grado di reggere. Malgrado ci amassimo moltissimo, fisicamente non riuscivo più a sostenere la nostra relazione. Lo lasciai perché avevo una grave anemia. Questo è stato il motivo della nostra separazione. Carmelo non accettava che altri potessero essere ammalati: quella condizione spettava solo a lui. Provammo a tornare insieme, io però avevo ormai acquisito delle abitudini solari, inconciliabili col suo modus vivendi. Resta per sempre il grande amore della mia vita, insostituibile da qualsiasi altro corteggiatore. Nel confronto ci hanno perso tutti. Con gli altri di cosa avrei potuto parlare? Del quotidiano, il dialogo con Carmelo invece era sempre qualcosa di bello, di lirico. È stato la mia vita.

 

 

 

La complessità del vostro rapporto sembra intravedersi anche nei ruoli teatrali che Carmelo le affidò: nelle sue due grandi famiglie, quella dei Pinocchi e quella degli Amleti, lei interpreta rispettivamente la fatina e la regina, due personaggi con i quali i relativi protagonisti hanno delle relazioni non facili.
La regina l’ho fatta solo nei primi Amleti. Quando poi Carmelo è passato all’Amleto laforghiano io ho sempre interpretato Kate, la prima donna che andava a Elsinore a recitare, di cui il principe si innamora, fugge con lei a Parigi e rinuncia alla vendetta del padre. Tornando alla domanda, forse fu per questo che non volle farmi interpretare Desdemona. Abbiamo fatto Cassio governa Cipro per la radio, testo di Manganelli nel quale si recita l‘Othello. Solo in quell’occasione feci Desdemona. Quando riascoltammo il passaggio radiofonico sull Rai mi commossi fino al pianto, perché in quella parte, che ero io ma allo stesso tempo altro da me, risentì le tensioni affettive che stavamo vivendo in quel momento: le parole dell’Othello diedero voce al nostro dolore e alla nostra gelosia. L‘Othello teatrale poi è venuto dopo, e forse per questo non ha voluto che interpretassi più quella parte. Carmelo, soprattutto nel cinema, mi ha sempre raccontato come una Madonna, attraverso immagini alte, e forse Desdemona per lui non lo era abbastanza, causa com’è di umori foschi e belluini.

 

 

 

Nei tanti progetti in cui è stata coinvolta, anche indirettamente, penso al capitolo dedicatole in «Sono apparso alla Madonna», in quale si sente maggiormente presente?
Ce ne è uno che abbiamo provato a lungo e non abbiamo mai messo in scena, e proprio per questo rimane una spina nel cuore: Venere in pelliccia di von Sacher-Masoch, un testo che Carmelo alla fine considerò impossibile da rappresentare. A cui sono particolarmente legata invece il Pinocchio, nel suo primo adattamento, quello più beniano, dove interpretavo il doppio ruolo della fata e della volpe; e poi la versione teatrale di Nostra Signora dei Turchi.