«La sfida più significativa incontrata nel corso di quest’inchiesta è stata quella posta dal ciclo delle 24 ore di news non stop e dal loro insaziabile appetito nel parlare di qualsiasi cosa. Seguita subito dopo dal cicaleccio costante dei social media».

Con quest’affermazione paradossale, strategicamente piazzata all’inizio della conferenza stampa, il procuratore (democratico) della contea di St.Louis, Robert McCulloch, prima ancora di rivelarci che l’agente Darren Wilson non era stato incriminato per la morte di Michael Brown, già puntava il dito: tutto quello che è successo a Ferguson (presumibilmente anche la morte di un diciottenne disarmato crivellato dai proiettili da un poliziotto) è stato colpa dei media.

Colpa dei media, implicava McCulloch, sarebbero state anche la furia e la costernazione che si apprestavano a scoppiare alla notizia che Wilson non avrebbe subito un processo, nemmeno per un capo d’imputazione «soft» come quello di omicidio colposo – erano stati i giornali, le televisioni e twitter a creare un’aspettativa sbagliata.

Come gran parte degli americani, «quei media» si erano attrezzati da giorni per l’annuncio del verdetto. A Ferguson, durante il countdown delle ultime ore, gli elicotteri dei telegiornali illuminavano in pianta gli schieramenti, da un lato la polizia in riot gear, dall’altro «la gente». Persino a New York (dove solo pochi giorni fa un altro poliziotto ha ucciso un altro ragazzo afroamericano) il cielo era pieno di troupe televisive che riprendevano manifestazioni come quella di circa 200 persone organizzata a Union Square (prevalentemente composta di studenti bianchi, dalla vicina NYU). In una maratona mediatica di ore che ha coinvolto un esercito di giornalisti e di «esperti», dopo la surreale apparizione di McCullogh, durata circa venti minuti e coreografata interamente da lui – inclusi l’ora dell’annuncio e le modalità – il momento più strano della serata è stato (su Msnbc) vedere Obama che parlava, con calma forzata, dalla Casa bianca, mentre di fianco a lui, sull’altra metà dello schermo, scoppiava letteralmente la rivolta.

Washington e Ferguson, la capitale del governo federale in cui un afroamericano è arrivato alla Casa bianca e una cittadina povera del Sud, a maggioranza nera ma governata da un’amministrazione bianca e reazionaria (perfettamente incarnata dal ferreo controllo con cui McCulloch ha condotto tutta la vicenda, dal giorno in cui è stato ucciso Michael Brown ad oggi).

La storia di Ferguson, come quella delle recenti elezioni di mid term, è stata fin dall’inizio uno scontro di due mondi, di un’America del presente/futuro e di una ancorata al passato con le unghie e con i denti. Chiaro che per McCulloch, l’attenzione dei media nazionali è una minaccia, un’intrusione. Qualunque contatto con l’esterno è una minaccia.

ferguson
È stato quasi con sfida, infatti, che il procuratore ha annunciato il rilascio delle deposizioni e dei documenti grazie ai quali il gran giurì (9 bianchi e 3 afroamericani) ha deciso di non incriminare Darren Wilson. «Le prove», «i fatti», li ha definiti lui.

Disponibili online, più che prove e fatti, sono pagine e pagine di testimonianze discordanti e occasionalmente agghiaccianti. Partendo proprio dalla deposizione di Wilson (alto 1 e 95 per 95 chili di peso) che dice di essersi sentito, di fronte a Brown (alto come lui, pesava 132 chili ed era privo di armi), «come un bambino di cinque anni di fronte al lottatore Hulk Hogan». E che parla così di un diciottenne che aveva già ferito: «L’unico modo in cui posso descriverlo è dire che sembrava un demone. Era talmente arrabbiato da averne l’aspetto».

Parte dei documenti inclusi nel dossier è anche la pagina del diario di uno dei testimoni della morte di Michael Brown. La data è il 9 agosto, il giorno dell’omicidio: «Devo cominciare a comprendere meglio la razza nera. Smettere di chiamare i neri negri e apostrofarli come persone. Come diceva sempre mio padre: non puoi temere o odiare un’intera razza per quello che un uomo ha fatto 40 anni fa».