«Dal corpo sottile, dal suo volto pensoso, illuminato dal pallore della fronte, emanava un fascino che agiva infallibilmente su coloro che si sentono attratti dalla tragica grandezza dell’androgino». Se Ella Maillart ha potuto definire in tal modo Annemarie Schwarzenbach è perché davanti a quell’«angelo devastato» – come l’aveva chiamata Thomas Mann – non esistevano molte parole per raccontare il proprio smarrimento. L’incanto scompigliante da parte di chi ha incontrato la scrittrice svizzera ha assunto spesso connotazioni eteree; di «arcangelo Gabriele» parlava anche Marianne Breslauer e di «angelo inconsolabile» Roger Martin du Gard. Eppure ad abitare tanta indecifrabile bellezza era una ragazza in carne e ossa, di un’intelligenza obliqua, di una sofferenza bruciante, di un amore verticale per la propria scrittura – narrativa e giornalistica – e, non ultimo, verso le donne. Ne ha incontrate e amate diverse, immaginate e descritte altrettante in romanzi, novelle e lettere.

Apparsa in Francia nel 2004, Annemarie Schwarzenbach ou le mal d’Europe, è una completa biografia della scrittrice composta da Dominique Laure Miermont che riprende nel titolo le considerazioni di Catherine Pozzi, perché «accanto a lei si ha una curiosa sensazione di instabilità. Ti dà il mal d’Europa». Tradotta in Italia, Una terribile libertà (Il Saggiatore, pp. 343, euro 25), da qualche tempo fuori commercio, è di nuovo disponibile per le cure di Tina D’Agostini e ritrae la personalità di una tra le figure più contraddittorie del Novecento, vissuta per soli 34 anni e pioniera del foto-reportage in Medio Oriente, Stati Uniti e in Africa, giornalista raffinata e amante degli eccessi. Nata a Zurigo nel 1908 in una famiglia alto-borghese, la giovane Annemarie patirà per tutta la vita il peso di etichette e convenzioni sociali, cercando prima di fuggire via dalla tenuta di Bocken, poi da se stessa nell’attesa di farsi toccare dal mondo.

Affamata di risposte, ha sedici anni quando aderisce al movimento Wandervogel, pacifista e socialista, che propone un ritorno alla natura e riflette su alcune questioni etiche rilevanti. È in questi pressi che fa la conoscenza del pastore Ernst Merz, un’interlocuzione che le porrà molte inquietudini. Alcune di queste, legate al disorientamento dell’età, la conducono presto alla contezza di altre lacerazioni, di un’Europa che precipita senza rimedio nell’orrore del nazionalsocialismo. La libertà che Schwarzenbach sceglie di agire per sé è la stessa desiderata per l’umanità diroccata che incontrerà da lì a breve nei suoi viaggi. Una libertà che non può che essere terribile, nello scontornamento di sé tra morfina e alcol. Eppure meravigliosa, come la fragilità insostenibile che le era propria, quando si assume l’esistenza come un progetto di senso, etico e politico che vuole fare i conti la realtà. Le scritture prendono corpo in collaborazioni con riviste, giornali e con la preparazione delle prime novelle e romanzi. Quasi 300 gli articoli e reportage fotografici pubblicati tra il 1930 e il 1942, sono più di 100 invece quelli dattiloscritti e mai pubblicati, così i 2000 negativi che insieme ad alcuni carteggi e altri manoscritti giacciono conservati e ancora inediti agli Archivi letterari di Berna. Ciò nonostante alcune traduzioni italiane ne restituiscono la portata, tra le tante La via per Kabul. Turchia, Persia, Afghanistan 1939-1940 (2002), Ogni cosa è da lei illuminata (2012), La notte è infinitamente vuota (2014), Gli amici di Bernhard (2014).

Grazie alla lettura del bel ritratto che Dominique Laure Miermont fa nella biografia, emergono alcuni dettagli interessanti della vita della scrittrice, fuori dall’aneddoto o dal puro avvicendamento cronologico. Nonostante si tenda a dimenticarlo, per esempio è stato di Schwarzenbach il progetto della rivista letteraria antifascista Die Sammlung, pubblicata dal 1933 al 1935 in Germania, che nelle intenzioni doveva accogliere voci di intellettuali che si opponessero al regime. Nonostante vi abbia partecipato solo con piccoli scritti, da Brecht a Cocteau, Huxley, Hemingway, Lasker-Schüler, Heine e altri hanno aderito con convinzione. Ma quando le viene offerto di accompagnare un gruppo di archeologi in Medio Oriente non esita un istante. Per sette mesi viaggia da Istanbul ad Ankara, percorrendo l’Anatolia, la Siria, da Beirut a Damasco e Gerusalemme fino a Baghdad e a Teheran, qualche anno dopo in Congo e in Marocco. Lavora già per importanti settimanali e quotidiani elvetici e registra non solo i siti visitati, bensì i modi di vivere di donne e uomini, ne commenta le difficoltà, scoprendo che quel mal d’Europa si assottiglia in doppio presagio, di sfascio per la guerra a venire e di malinconia per un tempo irreparabile in cui lei, forse, non sarà più. La prima parte degli articoli e appunti di viaggio, che andranno a corredare i suoi diari, terminano il 15 aprile del 1934. Lo sguardo di Schwarzenbach mantiene tuttavia ancora per anni uno speciale nitore anche ad altre latitudini. Così negli Stati Uniti, prima soffermandosi sulle città industriali della Pennsylvania poi consegnando alcuni quadri sulla condizione dei braccianti agricoli e dei problemi razziali negli stati del sud. Fino alla morte sopraggiunta nel 1942: «l’ho ritrovato, infine, il silenzio, come se un angelo, senza pronunciare nemmeno una parola avesse alzato la mano».