Non c’è fine ai festeggiamenti per la liberazione di Tel Abyad nel Cantone di Kobane. Dopo tre anni di assedio la Rojava è finalmente unita. Il villaggio della Collina Bianca (Tel Abyad in arabo) è ancora infestato di mine e macchine piene di esplosivo, mentre restano sacche di combattimenti dei miliziani dello Stato islamico nel centro urbano e nelle aree limitrofe. «Tel Abyad è caduta. Pkk e Pyd (partiti kurdi in Turchia e Siria, ndr) arrivano a Kobane da Qamishli», ha urlato per primo nel cuore della notte di Kobane un ragazzo per le strade piene di macerie della città distrutta dai bombardamenti dello Stato islamico e della coalizione.

Decine di camion, furgoni e automobili hanno attraversato la strada senza nome che taglia la città fantasma. Gli spari di kalashnikov sono andati avanti tutta la notte, serratissimi, tra veicoli e motociclette. L’impresa impossibile è riuscita: i soldati Ypg e Ypj (Unità di protezione maschili e femminili) dei kurdi siriani, organizzati dal Partito democratico unito (Pyd) hanno sconfitto i jihadisti. Judì, spagnolo, 26 anni, è uno dei combattenti stranieri, arruolatisi in Ypg. Da due mesi si è unito, insieme a tanti altri europei e statunitensi, alla lotta dei compagni di Rojava e ormai parla kurmanji, il dialetto kurdo locale. «Ci sono ancora dei miliziani di Daesh (Is) dentro e intorno a Tel Abyad. La battaglia inizia ora», ci spiega. Il veicolo dei pompieri ha percorso la strada in lungo e in largo, continuano i fuochi d’artificio mentre un’anziana signora sembrava in estasi mentre percuoteva grandi tamburi tradizionali. Bella ciao è una delle suonerie di cellulari più comuni da queste parti mentre i canti popolari e il pop dei Bigi Ypg echeggiano da ogni radio e megafono. Il gruppo musicale composto da soldati part-time dei Ypg spopola nella Rojava.

Ma solo poco prima Kobane era piombata in una tristezza assoluta. Cinque martiri erano stati portati verso il cimitero cittadino da una grande folla. Centinaia di persone tra le poche migliaia che hanno fatto rientro in questa città che prima contava 50 mila abitanti. Inconsolabili i familiari dei giovani martiri di Rojava, mentre le immagini di Ocalan scorrevano con i discorsi dei combattenti.

È qui che Ocalan ha il suo stato ma è una terra sotto assedio permanente. I turchi non permettono il deflusso dei profughi ammassati a Tel Abyad, mentre gli stranieri che vogliono portare aiuto umanitario non ottengono un permesso a Soruç. E allora bisogna affidarsi ai compagni kurdi che dai due lati aiutano gli stranieri ad attraversare il confine illegalmente.

I nostri contatti alla municipalità di Soruç ci hanno condotto da una casa all’altra tra gli immensi campi di grano fino ad arrivare a pochi metri dal confine. Qui nel cuore della notte abbiamo tentato di oltrepassare tre barriere di filo spinato e di evitare il controllo metro per metro dell’esercito turco. Gli abitanti delle case intorno al confine sono tutti sostenitori del partito della sinistra turca e kurda (Hdp), del Pkk e dei kurdi siriani (Pyd). Ci hanno lasciato trovare rifugio nelle loro case. Una ragazza kurda è stata uccisa così mentre tentava di attraversare.

Nel completo isolamento politico, la ricostruzione di Kobane non è mai cominciata. Tutto è lasciato alle iniziative di singoli o ong. Un gruppo di francesi, aiutato da un ex militare equipaggiato, si occupa di sminare il centro urbano. Non poche persone, di ritorno dalla Turchia sono saltate in aria. Per questo è molto difficile spostarsi in città. Il 90% di Kobane è distrutta. L’economia di sussistenza post-bellica è molto fragile. L’elettricità è completamente assente. Solo grazie ad alcuni generatori di sera è possibile avere qualche ora di luce. Nelle strade buie di notte, ad ogni incrocio ci sono comitati popolari, organizzati anche da Pkk, composti da uomini e donne (haremì) che controllano le strade. Eppure nessuno ha paura di camminare. Il clima è quello dell’azzeramento completo di ogni schema sociale.

Tutto è possibile ora a Kobane, nessuno è straniero. Il primo luglio si discuterà della ricostruzione urbana a Bruxelles con organizzazioni umanitarie di tutto il mondo. «60 ingegneri sono impegnati in una mappatura della città per stabilire l’entità dei danni e presentare progetti concreti ed ecologici al parlamento europeo», ci spiega Khaled Barkal, ministro per la Ricostruzione del Cantone di Kobane.

Il palazzo del governatorato ospita continuamente incontri con la popolazione rientrata per ascoltare i bisogni primari, secondo i principi di autonomia democratica, teorizzati da Ocalan. Un gruppo di ragazze vorrebbe riprendere la raccolta del grano e per questo ha incontrato il ministro del Lavoro. I piccoli fornai appena riaperti sembrano non avere molti mezzi a disposizione. Tutti sono pronti a regalare quel poco che hanno. Alla frontiera sono stipati gruppi di donne che ancora tentano di fuggire dai villaggi controllati da Is nella provincia di Raqqa e nel cantone di Efrine. Eppure sono decine i kurdi siriani che hanno deciso di sfidare l’assedio e rientrare. Sabri, 60 anni, è un pastore. È riuscito a rientrare nel villaggio di Cosek con la moglie. «I miei figli hanno deciso di restare in Turchia, hanno trovato lavoro come braccianti», ci spiega. Suo fratello era rientrato dieci giorni prima. Per aiutare Sabri, gli ha portato un gregge di pecore. Le sue erano state scacciate con l’avanzata di Daesh.