Heliseu da Motta e Silva, settantuno anni da compiere, si sveglia «su qualcosa di simile a un letto, abbracciato al nemico». Professore brasiliano di filologia romanza, riceverà in mattinata l’onorificenza che suggella, licenziandola, la sua carriera accademica. La sfida è alzarsi, lavarsi, vestirsi, fare colazione. Infine uscire: l’ultima chimera. L’aspirazione verso il fuori è ostacolata dalle nevrosi, dai tic, dagli acciacchi di un corpo che si è reso indipendente dalla testa.
«Il nemico è il corpo, lo ha già detto qualcuno?», chiarirà più avanti Heliseu, mentre senza riuscirci prova, distratto dagli agguati del nemico, a immaginare il discorso giusto da tenere in pubblico: «Signore e signori, concittadini, brasiliani!». Un discorso che vorrebbe, in un delirio narcisistico, profondo e lieve, simpatico ma commovente e capace di accattivargli l’ammirazione di tutti. Ma che inevitabilmente gli sfugge di mano, diventando piuttosto occasione di rinvenire, nella sua stessa vita accademica e privata, un senso utile a riscattarlo innanzitutto ai propri occhi e, in secondo luogo, agli occhi di una comunità ipocrita, riunita apparentemente per festeggiarlo e invece, da sempre, sostanzialmente ostile. La Caduta delle consonanti intervocaliche di Cristovão Tezza, traduzione italiana di Daniele Petruccioli, Fazi, pp. 238, euro 17,50), titolo discusso ma attraente, diverso da quello originale, O Professor, è il resoconto della manciata di ore che separano Heliseu dalla sua resa dei conti accademico-esistenziale. Un libro poco «brasiliano», semplicemente perché poco brasiliano si dichiara il suo protagonista.

Quando Heliseu conosce Mônica-Mnemônica, la donna che diventerà sua moglie, «la sempre compianta», la mai-bellissima, la poco elegante Mônica, equipara il nero dei suoi occhi «nitidi», forse un po’ troppo vicini, alle bacche di jabuticaba – frutto comunissimo in Brasile e altrove assente, che già un’altra grande brasiliana, Clarice Lispector, rendeva (penso al libro per bambini Quase de Verdade), una bandiera nazionale. Nella fascinazione che Heliseu avverte per gli occhi di sua moglie, così intensi, così jabuticabamente brasiliani, sembra che la brasilianità gli arrivi non come un dato obiettivo, perciò normale, ma come un vezzo e un esotismo.

Il mondo di Heliseu è tutto eurocentrico; europei i suoi riferimenti culturali. Fra i testi che più cita ci sono il Livro Velho de Linhagens, la cui stesura data all’incirca al 1270 e dove sono fissati i rapporti genealogici fra le nobili casate portoghesi; Dante; e Duarte Nunes de Leão, grammatico e giurista nativo di Évora, Portogallo, vissuto a cavallo fra Cinque e Seicento e autore di un’importantissima Origem da Lingoa Portvgvesa. Proprio di questo si occupa Heliseu: l’origine della lingua portoghese, la sua individuazione rispetto alle altre lingue iberiche occorsa, tra X e XI secolo, esattamente in grazia della caduta delle consonanti intervocaliche, per cui, ad esempio, allo spagnolo Dolor corrisponderà, in portoghese, il monosillabo Dor.

Ma nella vita di Heliseu c’è anche una dottoranda francese, Therèse, di cui si innamora perdutamente. Therèse ha tutto quello che a Mônica manca: è stravagante, fine, bella, ha la erre moscia. E propone a Heliseu una tesi complessa, lontanissima dai suoi interessi: la grammaticalizzazione del non-detto nella variante brasiliana del portoghese. È tramite Therèse, la «ghostwriter da ufficio e camera da letto», come la chiamano gli altri professori in sala caffè, che Heliseu accoglie quel «mantra della nostra era» che è la socialità.

La novità si ripercuote felicemente sulla sua scrittura, guadagnandogli una visibilità e un apprezzamento fin lì mai avuti. Nel romanzo sono le donne a incaricarsi di ormeggiare Heliseu alla realtà. Therèse, con le sue passioni sociologiche. Mônica-Mnemônica, con la sua memoria straordinaria che disinvoltamente collega i più banali fatterelli agli eventi eclatanti, sovraindividuali. Dona Diva, infine, la cameriera india-bianca-mulatta-nera, incarnazione del meticciamento brasiliano e testimone oculare della vita familiare di Heliseu, compresa la strana morte di Mônica, finita giù dal terrazzo mentre, dopo un’aspra lite col marito, annaffiava le sue Piante del Rosario, con il loro pappo gonfio e leggero che ricorda la testa del vecchio professore, impegnato a sgranare il proprio, personalissimo rosario.
Uomo poco simpatico, egocentrico, Heliseu appare vanamente tronfio e tristemente inadeguato. Esiliato per sua natura da ciò che lo circonda, ansioso di riscatto e privo di successi insindacabili, gli tocca avventurarsi di fronte a un pubblico chiamato invece a onorare la sua riuscita, consacrandola e sbarazzandosene a un tempo.
Per certi versi, questo libro è privo di segreti: i protagonisti vengono dichiarati fin dalle primissime pagine; i fatti, invece di collocarsi nel tempo, a dispetto delle grammatiche diacroniche che Heliseu ama tanto, si accatastano. Dove terza e prima persona si danno il cambio nel ricostruire con la massima precisione eventi e dialoghi passati. E dove però il dubbio continua a farla da padrone. Perché Heliseu, testimone maniacale e inattendibile di se stesso, non fa che chiedersi se deve ancora lavarsi i denti o se ha già fatto la doccia; e intanto prende svogliatamente un ansiolitico, non riesce ad annodarsi la cravatta e rimanda il momento di lasciare la sua stanza… Come se in lui si alternassero due libri, uno della mente che si arrabatta per dare nobiltà ai suoi contenuti e l’altro del nemico, del corpo, impegnato solo a cavarne le gambe e sopravvivere.