Rischia di passare sotto silenzio critico un avvenimento di una certa portata, nel panorama museale italiano: è stato riallestito – e inaugurato il 29 ottobre – il Nuovo Museo dell’Opera del Duomo di Firenze (con annessa guida omonima, a cura di Timothy Verdon, per Mandragora, pp. 147, euro 15,00). Il museo, che aprì i battenti nel lontano 1891, non ha bisogno di presentazioni: qui si conservano le celebri sculture provenienti dal Duomo, dal Battistero o dal Campanile. In origine erano solo tre sale, dopo gli ampliamenti novecenteschi si era giunti al numero di venti. La storia di questo restyling inizia invece nel 1998, quando l’Opera acquista, per dodici miliardi di vecchie lire, l’adiacente ex-Teatro degli Intrepidi, già trasformato in garage in pieno Novecento. Lo spazio a disposizione così raddoppia e viene indetto un concorso a inviti per la realizzazione del progetto architettonico. Fra Gae Aulenti, lo studio di Gregotti e quello di Adolfo Natalini, il vincitore risulta Santiago Calatrava (2002) – e un buon catalogo, a seguito di una mostra, raccoglie le proposte pervenute (Il nuovo Museo dell’Opera del Duomo. Quattro progetti, Mandragora, 2002). Ma dopo due anni di stallo, il matrimonio fra l’Opera e l’architetto spagnolo si scioglie e l’incarico passa ai ‘Natalini architetti’, supportati dallo studio di Piero Guicciardini e Mario Magni, ben più addentro alla realtà dei musei toscani (hanno, fra gli altri allestimenti in cantiere, anche quello dei Nuovi Uffizi).
Passato il tornello all’entrata del museo, appare un corridoio bardato di marmo, dove sono incisi nomi di artisti o artigiani impiegati della Fabbrica, quasi sullo stile dei memoriali americani. Materiali e cromie sono pesanti, dominano gli scuri, l’illuminazione spesso scarseggia, anche se sotto gli spot va una splendida testa del più classico e fortunato dei gotici senesi, Tino di Camaino. In caratteri cubitali e dorati, troneggiano citazioni dalle Vite vasariane o dai Salmi. Ma c’è spazio per un grande regalo. Si intravede quasi subito: una ricostruzione della facciata della Cattedrale in scala uno a uno – e nelle nicchie, nelle logge, nelle lunette, sono stati collocati i calchi da sculture note anche a chi frequenta i manuali di storia dell’arte: con una certa enfasi, è ora chiamata ‘Sala del Paradiso’. Su progetto di Arnolfo di Cambio, a partire dall’inizio del Trecento e fino al primo ventennio del Quattrocento, la decorazione della facciata era andata crescendo progressivamente, sino a divenire una babele di stili lunga un secolo. Il documento che guida a recuperare le collocazioni delle sculture nello stato antico della facciata è un famoso disegno, attribuito a Bernardino Poccetti, precedente il 1587 e però mai riprodotto nei cartelli: lo si vede apparire solo in video. Per la prima volta, si riesce dunque a capire come funzionava uno scorcio di Arnolfo, scultore che ora si può riscoprire del tutto. I suoi volumi massicci, le esasperazioni delle proporzioni, le squadrature che costringono i volti – tutto un armamentario che la critica aveva già avvertito come falsante – tornano a essere meri espedienti per una visione dal basso. Gli originali sono quasi sempre a portata di occhio, a pochi metri dallo spettatore, solo i doppioni servono da guida alla comprensione. Di fronte, una accanto all’altra, le porte del Battistero, e sopra, i relativi gruppi bronzei, sempre nella posizione originaria. Le formelle del Ghiberti dialogano con i Profeti di Donatello o di Nanni di Banco con una facilità che sembra un miracolo museografico, eppure non c’è nulla di artificiale: doveva essere proprio così. E anche i sarcofagi romani – sottolinea in un breve incontro monsignor Verdon, direttore e autore del progetto museologico – sono qui esposti a documentare quanto l’antico fosse una miniera a disposizione di scultori e scalpellini che trafficavano fra Duomo, Battistero e Campanile. Visti dal basso, anche i bronzi del Rustici guadagnano in ferocia, mentre il Battista di Vincenzo Danti sta quasi a chiudere il sipario, nella solita maniera fra l’accademia e la spacconeria.
Tanto il museo restituisce in sale ariose e chiare gli spazi esterni o di grandi dimensioni, quanto racchiude reliquiari, dalmatiche e oggetti da sacrestia in ambienti minori, popolati di teche valide. La Maddalena di Donatello forse meritava una sala tutta per sé, come è toccato alla Pietà di Michelangelo. Invece, nelle pareti attorno alla santa decrepita di legno, si affollano maestri fiorentini anche del secolo prima, da Bernardo Daddi a Giovanni del Biondo. Si ha un’idea dello scarto fra vecchio e nuovo allestimento, se si considera che la Pietà, abbandonata in uno scatto d’ira dal Buonarroti, prima era esposta nell’andito della scala. Ora è alla ribalta, sopra un finto altare e tutti i tormentati passaggi, dalla finitezza alla materia bruta, si apprezzano a dovere. Anche le sale dedicate ai reliquari o ai paramenti funzionano: di mezzo ci sono artisti della levatura di Antonio Pollaiolo (è stato ricomposto il parato di San Giovanni) e orafi non meno esperti, in fatto di fastosità decorative, come Antonio di Salvi. Da vari punti del museo, si rivedono le sculture della facciata: per esempio da una galleria dove sono esposti i marmi per il Campanile. La serie di Andrea Pisano fronteggia i primi profeti, popolari o senatoriali, che uscivano dallo scalpello di Donatello; ma qui non sono pervenuti tentativi di ricostruzione della collocazione originaria. Al momento di raccontare la storia della cupola, regna la confusione: ci sono dei tronchi che evocano le foreste del Casentino e un video dal volume troppo alto. Anche il resto del museo abbonda di musica, come la sala delle Cantorie, anch’essa deludente. Meglio quando si torna a occuparsi della facciata: un video, stavolta più ragionato, spiega per filo e per segno come nel 1587 Francesco I facesse smontare la facciata arnolfiana e da lì iniziasse una storia moderna di progetti irrealizzati: dalle prime proposte, morigerate, di Bernardo Buontalenti o di Giovanni Antonio Dosio, fino agli sfoggi, di festoni e di chiarezza, di Gherardo Silvani. Solamente un secolo dopo si concretizzò qualcosa, ben poco: una facciata effimera dipinta, commissionata da Cosimo III nel 1689, in occasione delle nozze di suo figlio. Questo assetto giunge sino all’epoca della fotografia: la situazione rimase tale fino al compimento del progetto di Emilio De Fabris (1887). In mezzo, c’erano stati i tempi in cui si sognava di una Santa Maria del Fiore che somigliasse a una Chartres o a una Westminster o, tout court, a una cattedrale da fiaba anderseniana. Fra i tanti materiali, si riscopre la qualità di un pittore assai teatrale, come Niccolò Barabino, autore dei cartoni per i mosaici.
Sia detto a margine: ma quanto rimane ancora da fare, anche a Firenze! Si crede che sia tutto alla luce e invece non è così. La città-vetrina non restituisce una profondità. Per esempio, restando in area Duomo, c’è la Sacrestia dei Canonici. Sono riuscito a entrare, per la prima volta, grazie alla gentilezza di un custode; ma piange il cuore a pensare che sia l’ultima: la sacrestia, ancora utilizzata, è sempre chiusa a doppia mandata. Eppure dentro ci sono gli armadi intarsiati da Giuliano e Benedetto da Maiano, prodigi della visione prospettica: anche gli alberi e le nuvole, nell’Annunciazione, rispondono al nuovo teorema. Ci vorrebbero anche qui le visite guidate, come a Palermo. Ma Verdon ci ha anche confessato: ‘Firenze è la città del turismo di massa’. Purtroppo, monsignore, e bisogna lavorare in senso contrario.