La femminilizzazione della sfera pubblica, a cui assistiamo ormai da anni , anche se viene vista prevalentemente sotto il profilo del numero crescente di donne presenti nelle istituzioni, nella politica, nell’economia, nelle professioni, nella cultura, ha come suo aspetto più innovativo la «valorizzazione» di quegli attributi che sono stati storicamente il pretesto per la loro esclusione dalla polis. Non a caso, è proprio dalla messa in discussione della femminilità che ha preso le mosse il femminismo degli anni Settanta, un salto nella coscienza del rapporto tra i sessi destinato a lasciare un segno duraturo sia nella vita privata che pubblica.
Nella fase iniziale, e per circa un decennio, era parso chiaro a tutte le componenti del movimento che l’emancipazionismo, attestato sul dilemma uguaglianza/differenza -richiesta di parità o viceversa di tutela della particolare «condizione femminile-, non poteva che portare alla conferma del «ruolo secondario e integrativo della donna anche nel lavoro extradomestico».

La «rivoluzione» del nuovo femminismo è stata prendere coscienza che l’espropriazione più profonda di esistenza delle donne passa attraverso il corpo: dalla sessualità negata e trasformata in sessualità di servizio, all’obbligo procreativo. Veniva allo scoperto che le «identità di genere» sono il prodotto astratto di una differenziazione che passa all’interno dell’individuo, separando parti tra loro indisgiungibili come il corpo e il pensiero, i sensi e la ragione. Diventava chiaro, in altre parole, che le differenze di genere, così come sono state concepite strutturano sia la relazione d’amore -come sogno di ricongiungimento armonioso dei due rami divisi dell’umanità- sia il rapporto di potere tra i sessi, a partire dalla divisione sessuale del lavoro.

Modificare se stesse

Le donne sono state confinate sul versante che è parso più vicino alla loro «natura» di genitrici, custodi della sessualità e degli interessi della famiglia, l’uomo ha riservato a sé la sfera pubblica, senza rinunciare per questo ad estendere il suo dominio sugli interni della case: «come una stirpe – scrive Freud ne Il disagio della civiltà – o uno strato di popolazione che ne abbia assoggettato un altro per sfruttarlo».
La critica a ogni forma di dualismo non poteva che partire da chi ne aveva portato per secoli il peso di maggiore alienazione e sofferenza, ma era chiaro che riguardava entrambi i sessi, i ruoli che erano stati chiamati a rivestire di generazione in generazione. Altrettanto chiare erano l’estensione e la complessità del cambiamento che si prospettava: una «modificazione di sé» che spingeva la politica fin dentro le zone più remote e misteriose della vita psichica, per venire a capo di una rappresentazione del mondo imposta dall’uomo e dalla donna «aprioristicamente ammessa» – per usare le parole di Sibilla Aleramo-, «compresa solo per virtù di analisi»; ma anche l’idea che si potesse partire da questa incursione nella storia personale, nel «sé» meno conosciuto, per modificare l’ordine sociale nel suo insieme.

Si potrebbe dire che il sogno d’amore, inteso come fusione di nature diverse, ricongiungimento degli opposti, oggi esce dalla sfera intima degli individui per diventare paradigma delle trasformazioni che interessano l’economia, la politica, l’organizzazione sociale nei suoi vari aspetti. Il lavoro di cura o il lavoro domestico, come qualcuna preferisce chiamarlo, elargito finora gratuitamente a bambini, malati, anziani e adulti perfettamente autonomi all’interno delle case, fa il suo ingresso senza soluzione di continuità nella sfera pubblica: un maternage senza fine che da «destino naturale» diventa per le donne il passaporto per la loro piena cittadinanza.
Se il femminismo degli anni ’70 nasceva come processo di «liberazione» da modelli imposti, divenuti habitus mentali, incorporati fino a confondere la lingua dell’oppressa e dell’oppressore, i decenni successivi hanno visto riemergere logiche emancipazioniste, sia pure in forme diverse da quelle del Novecento.

Acque insondate

Dopo aver scavato a lungo, e non senza difficoltà, nei sedimenti della vita psichica e nella memoria del corpo fino ai confini tra inconscio e coscienza, le anomale pratiche politiche del femminismo hanno effettivamente segnato una battuta d’arresto: per stanchezza, per paura di vedere ricomparire nella socialità tra donne che si veniva costruendo fantasmi famigliari, esperienze di rapporti materno-filiali particolarmente distruttivi o dolorosi, per la sensazione di affondare nelle «acque insondate» della vita personale, troppo lontane dalle istituzioni della vita pubblica per poter essere attraversate senza smarrirsi.

Ma c’è un aspetto dell’emancipazione che non si prevedeva o che abbiamo sottovalutato. A quella nota storicamente come rincorsa omologante a essere come l’uomo, fuga da un femminile screditato, se ne è andata affiancando un’altra: l’emancipazione del femminile in quanto tale. La donna, il corpo, la sessualità sembrano essersi presi la loro «rivalsa» sulla storia che li ha esclusi e cancellati, ma senza alcun ripensamento critico. Il passaggio da una condizione che si è subìta, perché imposta con la forza del potere, della legge, della sopravvivenza, alla scelta di farla propria, di assumerla attivamente, non è certo senza significato.

Di fronte a donne che offrono i loro corpi in cambio di carriere e di denaro, che mettono al lavoro affetti, sentimenti, la loro vita intera, non si può più parlare di «vittime». Ma neppure, all’opposto, dell’«eccellenza» femminile che oggi verrebbe riconosciuta. La seduzione e la cura, le due potenti attrattive femminili che l’uomo ha definito in funzione del proprio privilegio, assicurandosene il controllo e il possesso, sono quei poteri sostitutivi con cui le donne, escluse dalla polis, hanno costruito la loro indispensabilità all’altro. Oggi, venuti meno i confini tra privato e pubblico, è la stessa civiltà dell’uomo a richiederli, o come riserva salvifica di umanità o come semplice forza integrativa, valore aggiunto, per un sistema produttivo in crisi.

Conciliazioni indigeste

Nel passaggio dal privato al pubblico, il femminile non sembra perdere tuttavia i tratti di subalternità che lo hanno accompagnato per secoli. Come si può pensare che, richiesta dalla nuova economia, dal mercato, dalla politica, la «cura» possa divenire automaticamente «gesto di libertà femminile», «autodeterminazione del proprio tempo», elemento propulsivo di un Diversity management? Un’analisi più attenta meriterebbe oggi l’autoesclusione: riconoscere che il potere maschile non si manifesta solo come difesa a oltranza del proprio privilegio, ma anche, indirettamente, attraverso i saperi, il linguaggio, i modelli su cui si regge il governo della cosa pubblica, la cui forza sta nel celarsi dietro la neutralità.

Soprattutto, le donne dovrebbero dirsi con chiarezza se vogliono che la cura resti una «competenza» femminile, una «differenza» di genere da valorizzare e far riconoscere come potere, risorsa, anche fuori dalla casa, o se sono disposte a mettere in discussione quello che è stato storicamente un ruolo imposto alla donna.
In altre parole, se pensano che la cura sia una responsabilità collettiva, non un problema privato e tanto meno un destino della donna. In questo caso è evidente che il discorso cambia: si smette di chiamare «maternità» la crescita dei figli, che come tale può essere fatta da uomini e donne, genitori biologici e non biologici; di fare della «conciliazione» tra casa e lavoro extradomestico un problema solo della donna; si cominciano a vedere la cura e il tempo di vita, non come «valore aggiunto», una risorsa che va a migliorare un sistema economico e politico in crisi, ma una finalità in sé da anteporre alla logica del mercato e della produttività illimitata.