Il Fondo Monetario Internazionale ha sfiduciato la politica economica italiana. La previsione di crescita del prodotto interno lordo è stata tagliata di 0,2 punti percentuali rispetto alle stime di ottobre. Il Pil crescerà quest’anno dello 0,7%, Nel 2018 la crescita sarà dello 0,8%, 0,3 punti percentuali in meno rispetto alle precedenti stime. Nel 2016 l’economia italiana è cresciuta dello 0,9%. L’Italia è l’unico tra i «grandi» dell’Unione Europea ad avere subito ieri questo rovescio. Complessivamente, l’Eurozona crescerà quest’anno dell’1,6%, +0,1 punti rispetto alle stime di ottobre. Invariata la crescita per il 2018 (a +1,6%).

Dopo la lettera della Commissione Europea che ha chiesto all’esecutivo una manovra aggiuntiva entro il primo febbraio, la previsione dell’Fmi è un’altra tegola che colpisce in 48 ore un esecutivo nato per condurre il paese a una placida conservazione delle politiche renziane, in attesa delle elezioni politiche. Per la Commissione Ue il governo deve rientrare dello 0,2% del Pil – 3,4 miliardi di euro – per rispettare gli accordi sulla riduzione del deficit strutturale.

La manovra a tenaglia non ha lasciato indifferente il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan che ieri è intervenuto al Tg3 dove si è detto «un po’ stupito» dal taglio della previsione sulla crescita fatto dall’Fmi: «Non sono molto d’accordo sulle stime» ha sottolineato. Interessante è anche la spiegazione del ministro sulle motivazioni della decisione che ha provocato il suo stupore: «Le ragioni addotte per una crescita più bassa sono più incertezza politica, difficile da argomentare dopo il referendum e con un governo in continuità con il precedente, e problemi con le banche che non sono preoccupanti».

In base a queste parole «un po’ stupite», si può allora dire che Washington non considera «stabilizzante» il governo Gentiloni e vede nella vita più o meno lunga del nuovo esecutivo un fattore di «incertezza politica». È sensibile il cambio di atteggiamento rispetto a quello comprensivo usato con Renzi. Quest’ultimo aveva ottenuto di posticipare l’esame dell’austerità a dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre ed era riuscito a fare passare il messaggio che la vittoria del «Sì» sarebbe stata un contributo per una «ripresa».

L’uso della flessibilità sul bilancio concessa dalla Commissione per comprare il consenso al referendum non ha funzionato. Le stime dell’Fmi rivelano inoltre che la fiducia renziana nella «crescita» era infondata. La deflazione dei prezzi al consumo, la prima dal 1959, l’aumento della disoccupazione giovanile, mai così alta dal novembre 2015, sono stati un campanello d’allarme. Inascoltato.

Il capo economista del Fmi, Maurice Obstfeld, sostiene che le riforme volute dall’ex premier Renzi sono «molto importanti e positive, ma molto resta da fare». Obstfeld ha precisato che le riforme approvate vanno attuate. In realtà, è lo stesso progetto del governo Gentiloni che si è impegnato ad approvare, in maniera definitiva, le deleghe sulla buona scuola e a continuare sul Jobs Act, a parte il maquillage più o meno approfondito sui voucher, che sono norme che non intaccano la «riforma» del mercato del lavoro. Le riforme «da fare» probabilmente riguardano «le banche» dove per Obstfeld «c’è spazio per agire».

Su questo fronte Padoan si sente al sicuro, per il momento. I «20 miliardi» per il salvataggio di Mps e altri sono più che «abbondanti» ha detto. Per il resto il governo intende continuare sul sentiero già segnato dalla «Renzinomics»: «Tasse più basse, riforme strutturali, ruolo crescente degli investimenti pubblici e privati per sostenere la crescita». Tutto quello che non ha funzionato quando le previsioni sulla crescita erano più alte di oggi.