Il presidio è davanti al Talent Garden di Torino, un coworking dove Foodora ha affittato uno spazio. Qui i fattorini in bici, perlopiù ragazzi e ragazze di 20-25 anni, al momento dell’assunzione erano venuti a firmare il contratto con l’azienda tedesca dell’eat in time, la consegna veloce dei pasti a domicilio: «Dopo quel primo incontro – racconta Andrea, uno di loro – tutto funziona solo virtualmente, su una app, un po’ come con Uber: ti assegnano i turni e volta per volta gli indirizzi del ristorante dove ritirare e del cliente che ha ordinato. In passato si andava con un fisso orario, per i nuovi invece c’è il cottimo». Un cococo che è velocemente peggiorato, e così i riders hanno deciso di protestare: e dopo i primi blocchi, la solidarietà di diversi ristoratori e il tam tam su giornali e social, finalmente l’amministratore delegato ha accettato un faccia a faccia in videoconferenza.

L’incontro è durato poco più di un’ora: una delegazione di corrieri – autorganizzati, ma alcuni si sono iscritti al Si Cobas – e di fronte a loro i due responsabili di Foodora Italia, Gianluca Cocco e Matteo Lentini. «Abbiamo spiegato – racconta Andrea – che bisogna prima di tutto mettere fine non solo al cottimo ma anche al rapporto cococo. Noi chiediamo l’applicazione del contratto della logistica, con paga base netta di 7,50 euro, più un bonus di 1 euro netto a consegna. Inoltre, vorremmo che l’azienda partecipasse alle spese di manutenzione della bici e ai costi telefonici, finora completamente a nostro carico». I vertici di Foodora Italia hanno preso tempo, aggiornando il prossimo incontro a giovedì. Un primo negoziato, in luglio, era andato a vuoto: un no deciso sugli aumenti di stipendio, qualche apertura sulle spese, ma che poi non aveva avuto seguito. Questa volta i riders hanno voluto coinvolgere i ristoratori: «Durante la protesta di sabato scorso siamo entrati a portare i nostri volantini: alcuni locali ci hanno detto che non potevano sospendere le richieste, altri invece hanno aderito, e anzi hanno usato i propri canali per sostenerci».

Dalla yogurteria Fyo a Piazza Statuto fino a un ristorante abbastanza conosciuto a Torino, il Laleo, che sulla propria pagina Facebook spiega che «la precarietà non può giustificare lo sfruttamento: soprattutto se si considera che la percentuale che viene chiesta al ristoratore d Foodora è del 30% sul valore dell’ordine (che scende al 25% se decidete di battagliare decisi) oltre al costo fisso di consegna di 2,90 euro» a carico del cliente finale, quello a cui viene portato il pasto a domicilio. I contratti attivati un anno fa, quando Foodora da Berlino si è insediata anche in Italia – a Milano e Torino – prevedevano 5 euro di compenso fisso orario, ma solo per le ore effettivamente lavorate, passate poi a un cottimo di circa 2,40 euro netti a consegna. Bici e telefono sono del fattorino, e tra l’altro – spiegano i lavoratori – «la app è particolarmente invasiva, perché ci chiede l’accesso a tutti i dati presenti sul nostro cellulare personale».

C’è un’assicurazione per gli infortuni – qualche settimana fa un ragazzo si è rotto il dente e gli sono stati rimborsati i 150 euro dell’intervento – ma non c’è nessuna tutela per malattia, maternità e quanto altro non venga contemplato per un cococo. Ora i riders chiedono un contratto da dipendenti, «ma con part time verticali, perché ci teniamo alla nostro flessibilità, così come comprendiamo le esigenze di flessibilità dell’azienda».