Mahmoud Sarsak che bacia sul velo la madre in lacrime è un’immagine impressa nella memoria di tanti in Palestina. Era l’ottobre 2012: il portiere gazawi, all’epoca 25enne, aveva rifiutato di mangiare dietro le sbarre di un carcere israeliano per 90 giorni. Protestava contro la sfilza di ordini di detenzione amministrativa che lo tenevano prigioniero da tre anni. Nessuna accusa, nessun processo e il sogno di una carriera sportiva fatto a pezzi.

Sarsak era portiere della nazionale palestinese. Dopo il rilascio ha appeso i guanti al chiodo, il suo fisico distrutto dallo sciopero della fame. Stesso destino per due giovani promesse del calcio palestinese: Jawhar Nasser, 19 anni, e Adam Halabiya, 17. Hanno detto addio al pallone quando a gennaio 2014 soldati israeliani gli hanno sparato mentre tornavano dall’allenamento a Al Ram, vicino Ramallah. Colpiti ai piedi e alle gambe, una, due, sei volte.

Queste e tante altre violazioni sono alla base della richiesta dell’Associazione Calcio Palestina (Pfa) che il 29 maggio si presenterà al cospetto della Fifa per chiedere la sospensione di Israele dall’organizzazione fino a quando non garantirà liberta di movimento agli sportivi palestinesi e lo sviluppo delle infrastrutture nei Territori: dal 2007 alla nazionale palestinese è impedito di ritrovarsi tutta insieme per allenamenti e partite. La lista delle violazioni israeliane è lunga: divieti di viaggiare imposti ai giocatori, a cui è impedito di muoversi liberamente da Gaza e Cisgiordania e all’esterno; divieto di dare vita a squadre palestinesi ufficiali a Gerusalemme Est (per il diritto internazionale, territorio occupato al pari della Striscia e della Cisgiordania); visti di ingresso negati a delegazioni straniere in visita ai team palestinesi; divieto di importare attrezzatura sportiva; raid dell’esercito nella sede della Pfa.

La mozione sarà presentata ai 209 membri Fifa a Zurigo dal capo della Pfa, Jibril Rajoub, vecchio falco di Fatah. Se la richiesta di sospensione dovesse essere accolta, Israele sarebbe l’unico paese al mondo ad essere sospeso dalla Fifa. Fuori dai tornei internazionali, a cui invece la nazionale palestinese continuerebbe a prendere parte. Una minaccia non da poco all’immagine democratica che Israele vuole dare di sé, investendo milioni di dollari nella propaganda all’estero. La «football Intifada», l’hanno ribattezzata nei Territori Occupati: «Gli israeliani godono dello status garantitogli dall’appartenenza alla Fifa mentre deprivano l’amministrazione vicina del suo diritto di giocare a pallone – ha detto Rajoub la scorsa settimana – Per anni abbiamo chiesto alle confederazioni di Asia e Europa di intervenire.

Visto che non ha funzionato, abbiamo deciso di andare direttamente all’assemblea generale della Fifa». Nonostante gli sforzi palestinesi è difficile che la mozione passi per l’aperto contrasto all’iniziativa del presidente-padrone della Fifa, Sepp Blatter. Il suo dissenso lo ha espresso pochi giorni fa anche Michel Platini, presidente Uefa. Israele non nasconde, però, la preoccupazione: nel prossimi giorni la Ifa, Federazione Calcio israeliana, sarà impegnata in incontri faccia a faccia con le controparti europee, la Uefa e la stessa Fifa. Rajoub promette di proseguire: «Continueremo a combattere le politiche razziste israeliane fino a quando non avremo il diritto di fare sport come il resto del mondo».