Adesso può osservarci tutti, finalmente, dall’unica prospettiva assoluta: quella di dio. In pochi sanno che John Berger soffriva di cataratta eppure, come Le Corbusier che era cieco da un occhio, la sua capacità visiva era più ampia del comune. Vedere meno, forse di meno, significa poi vedere diversamente: un modo per capire che ogni cosa implica una prospettiva. «Il mondo» è sempre e comunque «un mondo», nel senso che ne è un tipo, perché per ogni esemplare vivente esiste un esemplare di mondo che gli corrisponde.

CON BERGER muore un gigante dell’idea, ormai purtroppo in disuso anche in filosofia, che la realtà sia un insieme di piani su cui esercitare punti di vista. Forse esisterà un mondo solo ma in ogni caso, rassegniamoci, l’occhio ragiona a modo suo e ne crea un’immagine: ogni immagine, come in Wittgenstein, è il mondo che ci accompagna.
Ma cosa significa «vedere» il mondo e i suoi oggetti? È nello zoo di Basilea che John Berger si pone in modo più radicale questa domanda: perché mai guardiamo gli animali e perché, proprio dagli animali, potrebbe passare la risposta al mistero del percepire il mondo? Loro sono là, in quel luogo specifico per essere guardati eppure, paradossalmente, è l’unico luogo in cui è impossibile vederli. Non possiamo vederli perché gli animali dentro uno zoo semplicemente non esistono: non potremo mai incontrare il loro sguardo laterale perché lo abbiamo trasformato in uno sguardo meccanico.

TUTTAVIA è in quello sguardo tra umano e animale, ormai estinto, che secondo Berger si cela il mistero della visione e della nascita di un mondo personale e proprio: osservo l’estraneo, mi scopro diverso, mi separo dalla natura e ne faccio uso e teoria. Da qui inizia l’eredità di Berger, dove «qui» significa l’idea che un punto di vista privilegiato su quell’immagine di mondo che ci appartiene venga dall’esterno, come nel suo romanzo del 1998 King: A Street Story dove un cane randagio racconta la storia di un senzatetto, e dove solo chi è fuori da noi riesce a restituire un’immagine di come è fatto davvero lo spazio in cui siamo collocati. Berger disegnava, scriveva, fotografava, dipingeva: Berger esisteva.

Nell’epoca in cui tutto è settorializzato lui, semplicemente, strabordava; un fiume pieno di parole e immagini che adesso non esiste più e di cui già si sente la mancanza. Berger ha insegnato che vedere un «tipo di mondo» significa anche farlo vedere, agevolarne la vista, assecondarla verso un circuito che può condurre ad anticipare visioni future, ricordare quelle passate, mostrare prospettive nuove e inedite su ciò che ci sembrava «già visto», noto, addirittura comune. Era questo il suo obiettivo tanto quando conduceva per la BBC la serie televisiva Ways of Seeing, portando incredibilmente un Walter Benjamin pop alla conoscenza del grande pubblico, quando scriveva le sue poesie che sembrano polaroid raccontate per versi.

Berger, come Oliver Sacks attraverso la neurologia (anche lui, non a caso, affetto da un disturbo legato al suo stesso mestiere: il Lytico-bodig), ha in fondo mostrato la diversità degli esseri umani, delle loro visioni, dei loro modi di vita, e delle loro capacità di trasformare in continuazione, magari con una fotografia, la realtà in fantasia, interpretazione, e dunque ancora una volta in «immagine».

NON SI FRAINTENDA tuttavia il suo messaggio: non è che ognuno possa dire quello che vuole e vale tutto; il problema è più sottile perché le formule della visione sono le ombre e le illusioni del nostro percepire. Occhio e fantasia vanno educati esattamente come cervello e ragione e chi lo sa se, a quel punto, vedere «un mondo» non sia una strada privilegiata per arrivare al mondo in quanto tale proprio come ci ricordava il maestro: «il vedere viene prima delle parole. Il bambino guarda e riconosce prima di essere in grado di parlare ed è il vedere che determina il nostro posto all’interno del mondo».