Il rapporto tra filosofia e letteratura è da sempre complicato, spesso ambiguo, perlopiù reciprocamente destabilizzante. E lo è fin dalla condanna platonica nei confronti dell’arte – rea di essere mera copia – e dal riconoscimento aristotelico che la poesia, e dunque la letteratura, è comunque più filosofica della storia, in quanto rappresenta un livello di universalità a cui la narrazione storica non può mai ambire. Intorno alla metà degli anni ottanta del secolo scorso, Arthur C. Danto, il famoso professore di estetica scomparso lo scorso anno, venne invitato da Donald Bartelheme, nume occulto della narrativa postmoderna, a Houston per tenere una lezione agli studenti del corso di composizione letteraria. Danto vi sostenne una tesi per molti versi ardita e allo stesso tempo difficilmente contestabile, ovvero che la filosofia nasce per separazione dalla poesia e che, proprio per questo, buona parte del discorso filosofico nella tradizione occidentale si presenta come antagonista rispetto al discorso della letteratura. Al problema del rapporto fra filosofia e letteratura Danto aveva già dedicato un memorabile discorso alla American Philosophical Association alla fine del 1983 e lo aveva intitolato, per fare il verso a Derrida, Filosofia come/e/della letteratura. In entrambi questi testi – raccolti poi in La destituzione filosofica dell’arte – Danto difende l’idea di un’irriducibilità della filosofia a letteratura e della letteratura a filosofia e, conseguentemente, la necessità di distinguere e tenere separate dell’una dal discorso dell’altra.

Questa tesi viene giocata soprattutto contro quelli che gli sembrano essere, nel ‘900, i due tentativi più radicali, per quanto opposti, di eliminare la differenza tra le due modalità di esercizio della scrittura rappresentate dal neopositivismo e dal decostruzionismo. Per quanto riguarda il neopositivismo è nota la classica posizione di Rudolf Carnap, che nel tentativo di rendere la filosofia rigorosa, e dunque scientifica, considera prive di senso tutte quelle proposizioni che non sono in grado di superare il test rappresentato dal principio di verificazione, secondo il quale una proposizione è sensata se e solo se ciò che dice è empiricamente verificabile. Tutte quelle proposizioni che pretendono di essere sensate, ma che in realtà non possono esserlo in quanto non sono verificabili, vengono ‘marchiate’ da Carnap come metafisiche e relegate, dunque, dentro il gran calderone dell’insensato.

La cosa problematica è che questa operazione di pulizia elimina, ovviamente, tutta una serie di proposizioni di una certa rilevanza per la vita degli umani. È evidente, infatti, che un simile criterio porta necessariamente all’esclusione di qualsiasi giudizio morale dal regno della sensatezza (che un certo comportamento sia giusto o ingiusto non è di per sé verificabile), di qualsiasi giudizio estetico (considerare un film di Woody Allen un capolavoro oppure una operazione banale non è un giudizio che si può sottoporre a un test di verificazione) ma, ovviamente, anche ciò che ha a che fare con la politica, con i progetti esistenziali, con le visioni del mondo a partire dalle quali orientiamo le nostre pratiche e le nostre condotte. Questa strategia porta perciò a sostenere che il tipo di filosofia incapace di superare il test di verificazione (ovvero, sostanzialmente, tutta la filosofia) è metafisica, la quale a sua volta altro non è, secondo Carnap, che letteratura; anzi: cattiva letteratura. Anche la letteratura, infatti, come in generale qualsiasi prodotto artistico, non potendo essere verificabile, appartiene al girone dell’insensato, con la differenza, però, rispetto alla metafisica, che la letteratura è in grado, se non altro, di provocare un sentimento o un’emozione.

All’interno di un contesto culturale radicalmente diverso, e per molti versi alternativo a quello rappresentato dal neopositivismo logico, anche per Derrida e per il decostruzionismo la filosofia sarebbe nient’altro che letteratura: ovvero un insieme di testi, che andrebbero letti, interpretati e smontati, appunto, solo come testi, come tessiture linguistiche che non rimandano a nulla al di là di se stesse: a nulla, cioè, che non siano altri testi. Certo, questo non è per Derrida un modo per dire l’insensatezza della filosofia (e dunque anche della letteratura), ma è un modo, comunque – sostiene Danto – per eliminare l’istanza veritativa dal discorso filosofico; ovvero, è un modo per togliere alla filosofia ciò a partire da cui essa, da sempre, assume senso e consistenza. È interessante, a partire da questo sfondo, leggere alcune trascrizioni di conferenze di Michel Foucault ora disponibili in La grande straniera A proposito di letteratura, (Cronopio, pp. 152, euro 16,00), interventi che si sviluppano fra i primi anni sessanta e primi settanta – tutti più o meno direttamente dedicati al rapporto tra filosofia e letteratura.

La postura di Foucault nell’avvicinare questo oggetto complesso, stratificato e multiforme che è la letteratura è tutt’altro che scontata, e difficilmente omologabile al cliché postmodernista e rivela, certo muovendo da presupposti e scopi assai diversi, anche alcune linee di tangenza con l’orizzonte problematico avvicinato da un autore come Danto. L’aspetto centrale dell’argomentazione di Foucault è il suo tentativo di mostrare come la domanda: «che cos’è la letteratura?» non debba e non possa essere letta e pensata come una interrogazione della letteratura dall’esterno. La sua provenienza non è, di per sé, dalla critica letteraria, né dalla sociologia, né dall’antropologia; essa è «una cavità» – scrive Foucault – che si è aperta nella letteratura, il segno di una lacerazione tutta interna alla letteratura. D’altronde, se si può sostenere che esiste letteratura da quando esiste il linguaggio umano, d’altra parte si può parlare e si parla davvero di letteratura solo dal momento in cui questo oggetto – l’opera letteraria – diventa problema a se stesso, ovvero, dice Foucault, «tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo». La letteratura sembra essere, in questo senso, ciò che viene a delinearsi e ad apparire come orizzonte problematico nel momento in cui l’opera letteraria si presenta come una trasgressione e una negazione della letteratura stessa: «credo si possa dire – sostiene Foucault – che, dal XIX secolo, ogni atto letterario si dà e prende coscienza di sé come una trasgressione di questa essenza pura e inaccessibile che sarebbe la letteratura».

L’opera letteraria classica è, secondo Foucault, una sorta di linguaggio intermedio tra il linguaggio assoluto dell’origine – e cioè il linguaggio anteriore a ogni parola che è il linguaggio di Dio, della Natura, della Verità – e il linguaggio loquace e insieme incapace di dire alcunché che è il linguaggio ordinario. La letteratura nasce quando il linguaggio assoluto scompare; quando, cioè, non c’è più nessuna parola prima da tradurre e l’opera diventa una sorta di ripetizione e cancellazione insieme di tutto ciò che è stato detto. La letteratura è dunque, a differenza dell’opera classica, un linguaggio radicalmente mortale, che non rimanda a nessuna origine; un linguaggio ripetitivo, trasgressivo e doppio. Un linguaggio che interroga se stesso; al punto tale che la dimensione della critica – evidentemente coeva, secondo Foucault, della letteratura – si sposta sempre più all’interno della letteratura stessa e la distinzione tra il testo del critico e il testo letterario diventa sempre più sottile ed evanescente.

Ne è un esempio lo straordinario esercizio foucaultiano sui testi di Sade, autore al centro dei suoi interessi fin dalla Storia della follia. Secondo Foucault, i testi di Sade sono inscritti nell’orizzonte della verità, ovvero vogliono svelare una verità, vogliono essere, in se stessi, nel racconto stesso, filosofia: «la verità di cui parla Sade – scrive Foucault – non è realmente la verità di ciò che racconta, ma la verità dei suoi ragionamenti». Il testo di Sade disgusta la sensibilità per colpire la ragione, a cui solamente si rivolge. Così Foucault riesce a mostrare come la scrittura di Sade non parli in realtà del desiderio e della sessualità, ma parli di Dio, dell’anima e della natura, allo scopo di evidenziare la contraddittorietà di queste nozioni, costitutive del discorso filosofico, che la narrazione vorrebbe, a sua volta contraddittoriamente, mettere in discussione. Sta qui, forse, nel riconoscimento di come la letteratura si fa critica e si fa filosofia, e di come la critica e la filosofia si fanno letteratura, che si può aprire uno spazio di discussione tra modi radicalmente diversi di pensare l’esperienza della scrittura letteraria, dal neo-hegelismo di Danto all’anti-hegelismo di Foucault.