Tra le pubblicazioni e i convegni organizzati in occasione del trentesimo anniversario della morte di Michel Foucault, una particolare attenzione merita il prezioso libro, edito in Italia da Cronopio, con il titolo Foucault e le genealogie del dir-vero (pp. 170, euro 18). Curato con perizia dal collettivo di ricerca Materiali Foucaultiani, il volume raccoglie gli atti di una giornata di studi tenutasi all’Ehss di Parigi, nel 2013, al fine di sollecitare «una prima discussione critica del progetto foucaultiano di una genealogia del soggetto moderno e delle pratiche di veridizione ad esso strettamente connesse, nelle società occidentali». Oltre ad un’elegante introduzione firmata da Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini e Martina Tazzioli, il volume si avvale di una serie di saggi che disegnano differenti scandagli del tema: sulla densità storica dei dispositivi di soggettivazione insistono Irrera, Lorenzini, e Frédéric Gros; sull’antinomia tra confessione e parresia, Laura Cremonesi; su governo, giurisdizione e veridizione, Gianvito Brindisi e Bernard E. Harcourt; sul rapporto tra volontà di sapere e asse etico-sessuale della ricerca foucaultiana, Michel Senellart; e sull’uso possibile della genealogia del «dir-vero» per decriptare i rapporti di forza che determinano il regime di governo dei rifugiati e dei migranti, Martina Tazzioli.

Una ricerca preziosa, s’è detto: preziosa e urgente, anche rispetto alla discussione critica e militante. Infatti l’insistenza con la quale Foucault sottolinea il nesso essenziale tra i diversi modi di manifestazione della verità, il governo degli individui e la costruzione della soggettività, precipita le nozioni-chiave del suo lavoro dal piano strettamente filosofico a quello immediatamente politico – allargandone tuttavia in modo considerevole temi e problemi. Il testo ruota attorno alla domanda che Foucault si pone dal 1980: «Perché, in che forma in una società come la nostra esiste un legame così profondo tra l’esercizio del potere e l’obbligo per gli individui di diventare essi stessi attori essenziali nelle procedure di manifestazione della verità?».

Una questione di genealogie

Questione tanto più dirimente se ripensata nell’alveo del dibattito sulla biopolitica. Com’è noto già nel suo celeberrimo corso del 1978-1979, dedicato all’analisi dei regimi neoliberali, Foucault non si limitava semplicemente a fissare l’economia come «ultima istanza» della politica – in ciò collocando le sue analisi del potere in una prospettiva produttiva compatibile con le analisi del Capitale di Marx (come da ultimo ha visto bene Pierre Macherey) – ma spingeva quella «ultima istanza» oltre la pura determinazione strutturale del politico, verso qualcosa che da allora in poi resterà decisivo: il mercato, la teoria economica neoliberale, si impongono come rivelatori della verità a cui il politico deve attenersi. «Il mercato – scriveva Foucault – deve dire il vero e deve farlo in relazione alla pratica del governo». Il neoliberalismo, insomma, si è costituito innanzitutto come vettore di veridizione, spazio decisivo nella produzione di uno specifico rapporto tra manifestazione della verità e governo degli altri.

La ricerca che il volume di Cronopio si propone di avviare assume allora il carattere dell’urgenza, proprio perché registra e insiste sull’altro versante del problema del dir-vero, quello delle pratiche di soggettivazione che si danno nel confronto con le verità storiche. Gli autori del volume, in altri termini, da una parte invitano a ricostruire una cartografia politica della verità; e d’altro canto ribadiscono e dimostrano quanto, nei cantieri foucaultiani, le dinamiche di assoggettamento siano sempre indissociabili da pratiche di resistenza, innovazione, reversibilità. Le genealogie del dir-vero servono per avviare una riscrittura critica della storia del lògos moderno, delle sue pratiche di verità e delle varie tecnologie in cui esse trovano consistenza: dunque, non per ribadire i limiti intransitabili del linguaggio della ragione, ma, al contrario, per sbarazzarsi definitivamente dall’«illusione del codice» o della razionalizzazione totale delle pratiche di soggettivazione. Il dir-vero diviene così il campo di un conflitto etico-politico decisivo, nel quale si contrappongono, come sottolinea nel volume Frédéric Gros «un materialismo etico della veridizione» e «un idealismo epistemologico della verità».

Le strutture della «riflessività»

L’ontologia storico-critica del tardo Foucault serve quindi a regionalizzare il regime del discorso vero – ivi compreso quello del mercato, del calcolo, della misura – per leggervi diverse procedure specifiche di razionalità, come tali contestabili e reversibili. Si tratta di una forma epistemologico-politica di critica dell’assoggettamento prodotto dai dispositivi universalistici, dalle teorie del limite, e da ogni tecnica dedita all’oggettivazione del soggetto nella forma della conoscenza – come spiega bene Orazio Irrera nel suo contributo. Articolare il politico all’epistemologico, del resto, non significa altro che mettere al lavoro le «strutture storiche di riflessività» (Gros) all’interno delle quali ci costituiamo in quanto soggetti: per riconoscerne le condizioni politiche di produzione, individuarne le contraddizioni, e rovesciare i rapporti di forza dai quali risulta un determinato partage tra ciò che vien dato per vero e ciò che s’ammette come falso. Ciò fuga ogni dubbio – come dimostra Daniele Lorenzini – sulla «portata direttamente politica della genealogia del soggetto moderno di Foucault»: politica perché aperta, storica, relazionale, contingente, modificabile, collettiva. E politica perché esposta a pratiche d’innovazione e rivoluzione in ogni punto di fissità del sistema della conoscenza.

La verità è una forza politica, quindi, in un doppio senso: perché diretta contro gli uomini al fine di assoggettarli, almeno nel suo stringente rinvio alle pratiche di governo. Ma la verità è anche una forza di soggettivazione, un’eccedenza, un sovrappiù che si squaderna nei rapporti di forza da cui è prodotto il sé, ma che al contempo contribuisce a scardinarli e modificarli – come nel caso della parresia o del gesto dei cinici. Questa ambivalenza del dir-vero vale in ogni disciplina scientifica (giurisprudenza, economia, psicologia, medicina e così via seguitando) laddove ciò che costringe e lega i soggetti a un determinato ordine del discorso rinvia in fondo alla forza che attribuiamo a un determinato sistema di veridizione. Una forza sostanzialmente derivata dal rapporto tra l’oggettivazione dei soggetti nella forma dell’evidenza scientifica e la questione del governo degli uomini. Il cantiere di ricerca che gli autori individuano in Foucault, allora riapre l’orizzonte della critica politica sul piano delle forme di razionalità, invita a proseguire il lavoro operando per distinzioni non più dialettizzabili: laddove alla presunta verità del mercato e della concorrenza non possono che corrispondere stili di vita che di quella verità producono una critica feroce e selvaggia.